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capitolo nono 483


Richiamando la questione alla dottrina, non intendiamo di declinare quella del fatto; ma bensì d’adempire una condizione necessaria per trattarla con cognizione di causa e utilmente. Il che noi cercheremo di fare con tutta quella precisione che può comportare un fatto così molteplice e così vario e composto, ma certo, con ogni sincerità: poichè, se il nostro scopo fosse d’illudere o noi medesimi o gli altri, il solo guadagno che potremmo ricavarne sarebbe quello d’essere o ciechi volontari, o impostori: due poveri guadagni.

Il punto della questione, per ciò che riguarda la dottrina, è questo:

Può l’uomo, fin che vive, di peccatore diventar giusto, detestando i suoi peccati, chiedendone perdono a Dio, risolvendo di non più commetterne, di ripararne il danno, per quanto potrà, e di farne penitenza, e confidando per la remissione di essi nella misericordia di Dio, e ne’ meriti di Gesù Cristo? Quando il peccatore sia così giustificato, è egli in istato di salvezza?

La Chiesa dice di sì; consultiamo la Scrittura, consultiamo la ragione, cerchiamo i princìpi e le conseguenze legittime di questa dottrina, e della dottrina contraria.

Lasciando per brevità da una parte la connessione essenziale di questa dottrina con tutta la Scrittura, e i passi ne’ quali è sottintesa, ne riportiamo uno solo, ma formale.

«La giustizia del giusto non lo libererà in qualunque giorno, pecchi; e l’empietà dell’empio non gli nocerà più in qualunque giorno si converta ... Se avrò detto all’empio: tu morrai; ed egli farà penitenza del suo peccato, e farà opere rette e giuste; se restituirà il pegno, e renderà quello che ha rapito, e camminerà ne’ comandamenti di vita, e nulla farà d’ingiusto; viverà e non morrà. Tutti i peccati che ha commessi, non gli saranno imputati: ha fatto opere rette e giuste, viverà1

Tutti i princìpi e tutte le conseguenze di questa dottrina ricadono dunque sulla Scrittura; ad essa bisogna chiederne conto, o, per dir meglio, ad essa dobbiamo la cognizione certa e distinta d’una verità così salutare e, del resto, così legata con l’altre ugualmente rivelate, per le quali la nostra mente è stata sollevata al concetto soprannaturale, che è quanto dire, al concetto intero della moralità. Infatti (siamo costretti dall’argomento a toccar di novo alcune cose già dette nel capitolo antecedente), infatti, se la giustizia consiste nella conformità dell’intelletto e della volontà e, per una conseguenza necessaria, dell’azioni con la legge di Dio, il peccatore che, per la misericordia e con la grazia di Lui, diventa conforme a quella, fino a condannar sè medesimo, diventa giusto. Se la giustizia è uno stato reale dell’anima umana; se la conversione, se il perdono ottenuto per i meriti del Mediatore non sono parole vane; l’uomo che, in qualunque giorno, è entrato in questo stato, è attualmente amico di Dio, e quindi chiamato alla sorte che Dio ha preparata a’ suoi amici. Se il tempo della prova è in questa vita; se il premio e la pena dipendono da questo tempo

    danno queste come bone ragioni per desiderare i tempi andati. Ammirazione e desiderio in cui si sprecano tanti pensieri che si potrebbero consacrare allo studio della perpetua corruttela dell’uomo e de mezzi veri per rimediarci, e all’applicazione di questa cognizione a tutte l’istituzioni e a tutti i tempi. Queste riflessioni non si danno qui come recondite, ma come trascurate.

  1. Iustitia iusti non liberabit eum in quacunque die peccaverit; et impietas impii non nocebit ei in quacumque die conversus fuerit ab impietate sua.... Si autem dixero impio: morte morieris; et egerit panitentiam a peccato suo, feceritque iudicium et iustitiam, et pignus restituerit ille impius, rapinamque reddiderit, in mandatis vitae ambulaverit, nec fecerit quidquam iniustum; vita vivet, et non morietur. Omnia peccata eius, quæ peccavit, non imputabuntur ei: iudicium et iustitiam fecit, vita vivet. Ezech. XXXIII, 12, 14, 15, 16. Vegg. pure il cap. XVIII, 21 e seg.