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capitolo ottavo | 479 |
gli presenta per crescere nella fiducia che le sue tracce su quella trista strada siano cancellate.
La religione ha ricevuto dalla società un vizioso, e le restituisce un giusto: essa sola poteva fare un tal cambio. Chi avrebbe tentato, chi avrebbe pensato d’istituire de’ ministri per aspettare il peccatore, per invitarlo, per insegnar la virtù, per richiamare a quella chi ricorre a loro, per parlargli con quella sincerità che non si trova nel mondo, per metterlo in guardia contro ogni illusione, per consolarlo a misura che diventa migliore?
Il mondo si lamenta che molti esercitino un così alto ufizio come un mestiere; e con questa parola gli rende omaggio senza avvedersene, riconoscendo che ogni mira di guadagno, di vantaggio temporale, anche onestissima in ogni altra professione, è sconveniente nell’esercizio di esso. Ma forse che sono cessati i ministri degni d’un tale ufizio? No, Dio non ha abbandonata la sua Chiesa: Egli mantiene in essa uomini che non hanno, che non vogliono altro mestiere che sacrificarsi per la salute de’ loro fratelli, e in questa vedono un vero premio de’ pericoli, de’ patimenti, della vita più laboriosa; qualche volta della morte, del supplizio, e più spesso d’un lento martirio. Ma il mondo che si lamenta degli altri, guarderà dunque questi con venerazione e con riconoscenza; in ogni ministro zelante, umile e disinteressato vedrà un uomo grande; si rammenterà con tenerezza e con ammirazione que’ sacerdoti che scorrono i deserti dell’America per parlare di Dio ai selvaggi; al sentire la fine di que’ soldati della Chiesa, che, andati alla China per predicar Gesù Cristo, senza una speranza terrena; ci hanno recentemente sofferto il martirio, il mondo se ne glorierà, come fa di tutti quelli che disprezzano la vita per un nobile fine. Se non lo fa, se deride quelli che non può censurare, se li dimentica, o li chiama intelletti deboli, miseri, pregiudicati, si può credere che il mondo odii, non i difetti de’ ministri, ma il ministero.
Ma la penitenza sacramentale non è utile e necessaria solamente a quelli che hanno scosso il giogo della legge divina, e aspirano a riprenderlo: lo è non meno ai giusti. In guerra continuamente con le prave inclinazioni interne, e con tutte le potenze del male, essi sono chiamati dalla religione a ripensare nell’amarezza del core le loro imperfezioni, a vegliare sulle loro cadute, a implorarne il perdono, a compensarle con atti di virtuosa annegazione, a proporre di cambiar sempre in meglio la loro vita. La penitenza è quella che distrugge in essi i vizi, al loro nascere, e in vasi di creta conserva il tesoro1 della giustizia.
Un’istituzione che obbliga l’uomo a formare un giudizio severo sopra sè stesso, a misurare le sue azioni e le sue disposizioni col regolo della perfezione, che gli dà il più forte motivo per escludere da questo giudizio ogni ipocrisia, insegnando che sarà riveduto da Dio, è una istituzione sommamente morale.
Come mai una tale istituzione ha potuto essere mal intesa da tanti scrittori? Come mai le è stato tante volte attribuito uno spirito perfettamente opposto al suo?
Non si può a meno di non provare un sentimento doloroso per ogni verso, quando, in uno scritto che spira amore per la verità, e per il perfezionamento, in uno scritto, dove le riflessioni le più pensate sono ordinate al sentimento morale, e questo al sentimento religioso, si trova questa proposizione: che il cattolicismo fa comprare l’assoluzione con la manifestazione delle colpe2