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capitolo ottavo 475

luogo: «In conclusione, non è veramente fedele, se non chi.... affidato alle promesse della divina benevolenza verso di lui, aspetta anticipatamente, con piena certezza, la sua eterna salute1.» E dovendo però ritenere la parola «speranza,» tanto solenne e tanto ripetuta nelle Scritture, non lo potè fare, se non levandole il suo significato essenziale, e cambiandolo in una contradizione: «La speranza, disse, non è, in conclusione, altro che l’aspettativa di ciò che la fede ha creduto esser veramente promesso da Dio2: Ma l’intimo senso, e il senso comune replicano, a una voce, che l’aspettativa d’un bene che uno avesse la certezza assoluta di possedere, sarebbe desiderio; non sarebbe speranza. Ogn’uomo, infatti, senza eccezione, conosce per propria esperienza e, se ce ne fosse bisogno, per un consenso non mai contradetto, uno stato dell’animo, relativo a un bene desiderato e, più o meno, probabile, che è, quanto dire, non certo. Ed è appunto questo stato dell’animo, che è significato dal vocabolo «speranza;» vocabolo che ha, senza dubbio, un equivalente in tutti i linguaggi; giacchè, come supporre una società d’uomini, nella quale non si senta il bisogno di significare uno stato dell’animo così universale, così frequente, così inevitabile? Quanto non sarebbe assurdo il dire: Credo, con certezza di fede, che possederò la vita eterna, e spero d’ottenerla! Eppure sarebbe la vera e unica maniera d’esprimere in atto la speranza cristiana, secondo quella dottrina. E sarebbe assurdo nè più nè meno il dire: Credo, con certezza di fede, la resurrezione de’ morti, e spero che i morti risorgeranno. Applicare la certezza a una proinessa condizionata, e la speranza a una predizione assoluta e infallibile, sono due forme d’un assurdo medesimo, cioè della confusione di queste due distintissime essenze.

Dopo tali premesse, non c’è da maravigliarsi, per quanto la cosa sia strana, che Calvino accusi di contradizione la dottrina del Concilio di Trento, appunto perchè c’è mantenuta la distinzione tra la speranza e la certezza. «Non vogliono, dice, che alcuno si riprometta da, Dio, con certezza assoluta, la perseveranza, quantunque non disapprovino il riporne in Dio una speranza fermissima. Ma, prima di tutto, ci facciano vedere con qual cemento si possano fare stare insieme due cose tanto repugnanti tra di loro, una speranza fermissima, e un’aspettativa sospesa3.» Cemento tra due idee, una delle quali è inclusa nell’altra? Perchè, di novo, chi non sa che la sospensione o, vogliam dire, la non certezza, è un elemento essenziale della speranza? che questa non è altro appunto, che l’aspettativa non certa d’una cosa desiderata? Ma dove gli par di cogliere la contradizione, è in quel «fermissima;» tanto una preoccupazione, principalmente quando è superba; può far dimenticare ciò che è impossibile d’ignorare! Chi non sa che la speranza, come ogni altro affetto umano, è capace di gradi infiniti? Il linguaggio ha, per dir così, esauriti tutti gli aggiunti, è andato in cerca di tutte le figure che potessero servire, in qualche maniera, a distinguerli e a determinarli. E, essendo poi la speranza cristiana, non un semplice affetto umano, ma una virtù soprannaturale, come non sarà desiderabile che arrivi al più alto

  1. In summa, vere fidelis non est, nisi qui... divinae erga se benevolentiae promissionibus fretus, indubitatam salutis expectationem praesumit. Ibid. 16.
  2. Ut in summa nihil aliud sit spes, quam eorum espectatio, ’quae vere a Deo promissa fides credidit. Ibid. 42.
  3. Prohibent capite decimo quarto, ne quis perseverandi constantiam sibi, absoluta certitudine, ex Deo polliceatur; tametsi firmissimam de illa spem in Deo collocari non improbant. Sed nobis primum ostendant quonam cemento coagmentari queant res tantopere dissidentes, firmissima spes, et suspensa expectatio. Antidotum Concilii Tridentini; in sextam sessionem.