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capitolo ottavo 471

loro inferiore, e ne implorano l’assoluzione, e ne ricevono le penitenze? Oltre di che, come mai si può supporre che i Greci, pur troppo divisi, e divisi qualche secolo prima che si parlasse di casisti, abbiano poi accettate da questi le forme della penitenza, che hanno comuni con noi in tutte le partì essenziali? In che tempo i casisti hanno commesso quest’atto d’usurpazione? Finalmente, come s’esercitava l’autorità di sciogliere e di legare prima che venissero i casisti a inventarne le forme? Le forme della penitenza, della confessione e dell’assoluzione sono state imposte dalla Chiesa fino dalla sua origine, come lo attesta la sua storia: nè poteva essere altrimenti; giacchè senza di esse è impossibile l’esercizio dell’autorità d’assolvere e di ritenere i peccati; ed è impossibile immaginarne di più semplici e di più conformi allo spirito di quest’autorità; come è impossibile immaginare chi, se non la Chiesa, avrebbe potuto ingerirsi a regolare un tale esercizio.


II.


Condizioni della penitenza secondo la dottrina cattolica.


Veniamo ora alla dottrina che è tacciata d’aver corrotta la morale; e vediamo se è quella della Chiesa. Un solo alto di fede e di fervore fu dichiarato bastante a cancellare una lunga lista di delitti. Di questa opinione, una parte è stata condannata; l’altra parte, nè la proposizione intera, non è stata insegnata mai.

In quanto alla prima, basti per ora ricordare che il concilio di Trento proscrisse la dottrina che l’empio sia giustificato con la sola fede, e la chiamò vana fiducia e aliena da ogni pietà1.

In quanto alla proposizione intera, non solo nessun concilio, nessun decreto pontificio, nessun catechismo, ma, ardirei dire, nessun libricciolo di devozione ha detto mai che un atto di fede e di fervore basti a cancellare i peccati. È bensì dottrina della Chiesa che possono esser cancellati dalla contrizione, col proposito di ricorrere, appena si possa, alla penitenza sacramentale.

Chi credesse che questa sia una questione di parole s’ingannerebbe di molto: è questione d’idee quanto nessun’altra.

Fervore non significa altro che intensità e forza d’un sentimento: suppone bensì per l’ordinario un sentimento pio, ma non ne individua la qualità; contrizione in vece esprime un sentimento preciso. Attribuire quindi al fervore l’effetto di cancellare i peccati, sarebbe proporre un’idea confusa e indeterminata, e che non ha una relazione immediata con quest’effetto; attribuirlo alla contrizione, è specificare quel sentimento che, secondo le Scritture e le nozioni della ragione illuminata da esse, dispone l’animo del peccatore a ricevere la giustificazione. Per avere dunque un’idea giusta della fede cattolica in questa materia, bisogna cercare cosa sia la contrizione, e cercarlo nelle definizioni della Chiesa. «La contrizione è un dolore dell’animo, e una detestazione del peccato commesso, col proponimento di non peccar più.... Dichiara il Santo Sinodo che

  1. Si quis dixerit sola fide impium justificari, ita ut intelligat nihil aliud requiri, quod ad justifcationis gratiam consequendam cooperetur, et nulla ex parte necesse esse eum suæ voluntatis motu proeparari atque disponi; anathema sit. Sess. VI. De Justificatione, Canon. IX. — Vana hæc et ab omni pietate remota fiducia. Ibid. Decreturn de Justificatione, cap. IX.