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capitolo settimo 461

feroce ostinazione di volere a schiavi pericolosi quelli che potevano essere amici ardenti e fedeli; ci troviamo una serie spaventosa di giornate deplorabili, ma nessuna almeno simile a quelle di Cappel1, di Jarnac2 e di Praga3. Pur troppo da questa terra infelice sorgerà un giorno gran sangue in giudizio, ma del versato col pretesto della religione, assai poco. Poco dico, in confronto di quello che lordò l’altre parti d’Europa: i furori e le sventure dell’altre nazioni ci danno questo tristo vantaggio di chiamar poco quel sangue; ma il sangue d’un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra.

Non si può a meno, in quest’occasione, di non riflettere sull’ingiustizia commessa da tanti scrittori nell’attribuire ai cattolici soli questi orribili sentimenti d’odio religioso, e i loro effetti: ingiustizia che appare a chiunque scorra appena le storie di quelle dissensioni. Ma questa parzialità può essere utile alla Chiesa; il grido d’orrore che i secoli alzano contro di quelle, essendo principalmente rivolto contro i cattolici, questi devono averlo sempre negli orecchi, e sentirsi richiamati alla mansuetudine e alla giustizia, non solo dalla voce della Chiesa, ma anche da quella del mondo.

Io so che è stato detto da molti, che queste avversioni e queste stragi, benchè abborrite dalla Chiesa, le possono essere imputate, perchè, insegnando a destare l’errore, dispone l’animo de’ cattolici a stendere questo sentimento agli uomini che lo professano.

A ciò si potrebbe rispondere che, non solo ogni religione, ma ogni dottrina morale, o vera o falsa, insegna a detestare gli errori contro i doveri essenziali dell’uomo, o quelli che pretende esser tali. Tutti coloro che, scindendo il Cristianesimo, fondarono delle sette separate dalla Chiesa, qual altro mezzo adoprarono, che di rappresentare come errori detestabili i suoi insegnamenti? È comune alla verità e all’errore, in tali materie, il detestare il suo contrario; e n’è la conseguenza naturale l’insegnare a detestarlo. E siccome poi l’errore non potrebbe nemmeno prendere una forma apparente, nè proporre per simbolo altro che delle negazioni, se non s’attaccasse a qualche verità; siccome, per conseguenza, ogni setta che si dice cristiana conserva qualche parte della verità cristiana; così non ce n’è alcuna che non riguardi come detestabili (e in questo caso rettamente) gli errori opposti a quel tanto di verità che conserva. Protestare, come fanno alcuni, di venerar, come sacre e rivelate da Dio, alcune verità, e di non avere altro che indifferenza per l’errore che le nega e le disprezza, è un accozzo di parole contradditorie, che contraffà una proposizione.

Ma, per giustificare la Chiesa, non è mai necessario ricorrere a degli esempi: basta esaminare le sue massime. È dottrina perpetua della Chiesa, che si devono detestare gli errori, e amare gli erranti. C’è contradizione tra questi due precetti? Non credo che alcuno voglia affermarlo. — Ma è difficile il far distinzione tra l’errore e la persona; è difficile detestar quello, e nutrire per questa un amore non di sola apparenza, ma vero e operoso4. — È difficile! ma qual è la giustizia facile all’uomo corrotto? ma donde questa difficoltà di conciliare due precetti, se sono giusti ugualmente? È cosa giusta il destar l’errore? Sì, certo; e non c’era nemmeno

  1. 31 Ottobre 1531.
  2. 16 Marzo 1569.
  3. 8 Novembre 1620.
  4. Filioli mei, non diligamus verbo, neque lingua, sed opere et veritate. Ioan. Epist. I, III, 13.