Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/451


capitolo terzo 445

finalmente poteva aspettarsi una ricompensa perfetta come questa legge medesima? Chi poteva prometterne una, non solo alla virtù, ma al segreto della virtù, se non Chi parlava in nome del Padre che vede nel segreto1? Chi prometterla abbondante in paragone di qualunque sforzo più eroico, di qualunque sacrifizio più doloroso, se non chi poteva prometterla ne’ cieli2? Chi nobile al pari del precetto d’aver fame e sete della giustizia, anzi perfettamente connaturale ad esso, se non Chi poteva dire: La vostra beatitudine starà nell’essere satollati3? Si può egli non vedere in questi esempi (e sarebbe facile il moltiplicarli, se ce ne fosse bisogno) una connessione unica, una relazione necessaria, tra i precetti e i motivi? Quando dunque la ragione ammira la morale del Vangelo, alla quale non si sarebbe potuta sollevare da sè, fa rettamente il suo nobile ufizio: ma quando ne sconosce l’unità divina; quando in ciò che il Vangelo prescrive e in ciò che annunzia non vuol vedere una sola e medesima rivelazione; quando ricusa d’ammettere motivi soprannaturali di precetti ugualmente soprannaturali, che confessa eccellenti (che non vuol dir altro se non conformi a delle verità d’un ordine eccellente), allora non può più chiamarsi ragione, perchè discorda da sè medesima.

Sicchè, quand’anche per quelle parole «filosofia morale», come sono adoprate dall’illustre autore e da lui opposte alla teologia, si potesse intendere, in vece d’una confusa e discorde moltiplicità di dottrine, una sola dottrina; quand’anche si potesse intendere una dottrina tutta vera, cioè il complesso delle nozioni rette intorno alla morale, che si trovano, dirò così, sparse nell’umanità, e queste nozioni nettate dai tanti falsi concetti che ci sono mescolati, accresciute di ciò che l’osservazione e il ragionamento partitolare possono aggiungere alla cognizione comune, e ordinate in forma di vera scienza; quand’anche, finalmente, si potesse per quelle parole intendere una scienza universalmente nota, e esclusivamente ricevuta, si dovrebbe ancora dirla inadeguata all’intento, perchè in essa non ritroverebbe un principio col quale a ogni grado della moralità (e non solo della moralità intera e perfetta che c’è manifestata dalla Fede, ma di quella medesima a cui arriva la cognizione naturale) si possa assegnare una ragione assoluta, legata con una sanzione preponderante; perchè, in altri termini, le sue speculazioni non pareggiano, nè potrebbero mai pareggiare l’idea del bene morale, sia come regola, sia come termine della volontà, cioè e come virtù e come felicità: idea che ai più sinceri e potenti sforzi di quelle speculazioni, non solo rimane inesaurita, ma sempre più comparisce inesauribile. Dal che viene di conseguenza che non si potrebbe da quella filosofia ricavare un criterio applicabile a ogni azione e a ogni sentimento. Anzi, per esser vera scienza, dovrà essa medesima riconoscere questa sua mancanza; giacchè come mai potrà esser vera scienza una la quale sconosca la natura del suo oggetto, e la misura necessaria delle sue speculazioni, a segno di non avvedersi d’una sproporzione necessaria che ci sia tra queste e quello? e, per restringere il bene morale ne’ limiti di quelle speculazioni, lo mutili e lo snaturi? neghi il carattere di verità a tutto ciò che le oltrepassa, o riconoscendo al di là da quelle qualcosa (e quanto!) a cui non può negare il carattere di

  1. Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi., Matth. VI, 4.
  2. Merces vestra copiosa est in coelis., Id. V, 12
  3. Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam, quoniam ipsi saturabuntur., Ibid. 6. Intorno a questo speciale carattere della ricompensa promessa dal Redentore, avremo occasione di dir qualcosa più in particolare nel Cap. XV.