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sata da milioni d’uomini, e proposta a tutti gli uomini, deve essere abbandonata, o conosciuta meglio, e seguita più e più fedelmente.

Si crede da molti che questa noncuranza sia il frutto d’una lunga discussione, e d’una civilizzazione avanzata; che sia per la religione l’ultimo e più terribile nemico, venuto, nella pienezza de’ tempi, a compire la sua sconfitta, e a godere del trionfo preparato da tante battaglie; e in vece questo nemico è il primo ch’essa incontrò nella sua meravigliosa carriera.

Al suo apparire, fu accolta dagli scherni del mondo; si principiò dal crederla indegna d’esame. Gli apostoli, nell’estasi tranquilla dello Spirito, rivelano quelle verità che diverranno la meditazione, la consolazione e la luce de più alti intelletti, gettano i fondamenti d’una civilizzazione che diventerà europea, che diventerà universale; e sono chiamati ubbriachi1. San Paolo fa sentire nell’Areopago le parole di quella sapienza, che ha rese tanto superiori le donnicciole cristiane ai saggi del gentilesimo; e i saggi gli rispondono che lo sentiranno un’altra volta2. Credevano d’avere per allora cose più importanti da meditare, che Dio e l’uomo, il peccato e la redenzione. Se questo antico nemico sussiste tuttora, è perchè non fu promesso alla Chiesa che distruggerebbe tutti i suoi nemici, ma che non sarebbe distrutta da alcuno.

Parlare di dommi, di riti, di sacramenti, per combattere la fede, si chiama filosofia; parlarne per difenderla, si chiama entrare in teologia, voler fare l’ascetico, il predicatore; si pretende che la discussione prenda allora un carattere meschino e pedantesco. Eppure non si può difendere la religione, senza discutere le questioni poste da chi l’accusa, senza mostrare l’importanza e la ragionevolezza di ciò che forma la sua essenza. Volendo parlare di cristianesimo, bisogna pur risolversi a non lasciar da parte i dommi, i riti, i sacramenti. Che dico? perchè ci vergogneremo di confessare quelle cose in cui è riposta la nostra speranza? perchè non renderemo testimonianza, nel tempo d’una gioventù che passa, e d’un vigore che ci abbandona, a ciò che invocheremo nel momento della separazione e del terrore?

Ma ecco che, senza avvedermene, entravo a difender me stesso contro delle censure avvenire, e che forse non verranno. Cadrei in un orgoglio ridicolo, se cercassi di trasportare a quest’opericciola l’interesse che si deve alla causa per cui è intrapresa.

Spero d’averla scritta con rette intenzioni, e la pubblico con la tranquillità di chi è persuaso che l’uomo può aver qualche volta il dovere di parlare per la verità, ma non mai quello di farla trionfare.

  1. Alii autem irridentes dicebant: quia musto pleni sunt isti. Act. Apost. II,13.
  2. Quidam quidem irridebant, quidam vero dixerant: audiemus te de hoc iterum. Act. Apost. XVII, 32.