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sulla lingua italiana 423

loro i possessori! Dico di quel Torquato medesimo che, quando parlava a sangue freddo, e ex abundantia cordis, diceva a tutto pasto: lingua toscana. E cosa s’allega del Tasso su questo proposito? Queste parole: «Mi contento, che se la vivacità dei Fiorentini ingegni dalla natura mi è stata negata; non m’è stato almeno negato il giudizio di conoscere, che io posso imparare da altri molte cose, assai meglio, ch’essi per sè non sono atti a ritrovare, e quella favella stessa non che altro, la quale essi così superbamente appropriandosi, così trascuratamente sogliono usare.» E dove si trovano queste parole? In un qualche trattato sulla lingua italiana? O in una qualunque altra opera del Tasso, dove il soggetto sia discusso incidentemente, ma, più o meno, alla distesa? Oh appunto! Sono le prime e l’ultime su quell’argomento, e si trovano in un «Dialogo del piacere onesto», dove un interlocutore riferisce due aringhe contradittorie, dette alla presenza del principe di Salerno, una da Vincenzo Martelli, suo maestro di casa, l’altra da Bernardo Tasso, suo segretario, sul punto se il principe sullodato dovesse, o no, accettare un’ambasceria a Carlo V, in nome della città di Napoli. Il Martelli principia dal dire che lui non è «d’una piccola e ignobile città del Regno di Lombardia;» e segue con lodi a Firenze, e con ingiurie almeno secondo l’intenzione, a Bergamo. Bernardo Tasso (giacchè quelle parole sono messe in bocca sua) risponde con lodi a Bergamo, e con ingiurie dell’egual merito a Firenze: e «i ladroni di Catilina, e i villani di Certaldo e di Figline, e l’arroganza delle repubbliche popolari, e i Bacci e i Valori che questionano della seta col setaiolo, e del velluto col tessitore:» che non doveva venire in campo anche la lingua? È doloroso, ripeto, il pensare che quelle triste parole messe fuori dal Tasso (siano del padre o sue) gli abbiano suscitate contro tante critiche, che per lui furono vere e crudeli tribolazioni: se vivesse ora, avrebbe dovuto far la corteccia più dura. Ma è anche strano che una sentenza, nuda affatto di prove, e detta in un’occasione dove l’intento principale e certo non era di definire, ma di pungere; una sentenza espressa, per una conseguenza molto naturale, in una forma più oratoria che logica, sia stata tante volte allegata con tanto trionfo dagli uni, e sentita con tanto sgomento dagli altri. In verità, si direbbe che, in una questione, le ragioni siano un di più, e che non ci sia nemmeno bisogno d’enunciarla in termini chiari e diretti. Infatti, cosa vuol dire superbamente? Senza ragione? o senza modestia? E non si dà, anzi non è frequente il caso, che uno usi trascuratamente ciò che s’appropria giustamente? E, certo, il Tasso non prevedeva che quella sentenza sarebbe diventata una ragione essa medesima. Non erano due italiani che discutessero sulla lingua; era un bergamasco e un fiorentino, che facevano a beccarsi. Se quel benedetto principe di Salerno avesse preso un maestro di casa da tutt’altra parte d’Italia, mancava alla questione della lingua un argomento, e de’ più ricantati. È vero che ne rimanevano molt’altri dello stesso valore.

Del resto, e per tornare al proposito, non so se, in altri tempi, i Fiorentini si siano mai appropriata davvero la lingua italiana; se siano mai stati persuasi, fermamente e coerentemente, d’averla essi, viva e vera e intera. Quello che mi pare fuor di dubbio è che, nel momento presente sono pur troppo lontani dal pretender tanto. Ammettono, cioè suppongono anch’essi una certa lingua nominale, che intera non l’ha nessuno, ma loro n’hanno più degli altri; val a dire hanno la porzione più grossa d’un tutto che non è; una certa lingua, della quale non sono i possessori, ma nella quale sono i primi. E come il conceder loro questo primato pare ad altri giustizia; così il contentarsene pare a loro moderazione: due false virtù, che sono in effetto due modi d’un vero errore.