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sulla lingua italiana | 419 |
non è una lingua, nè parte d’una sola lingua, nè potrà mai arrivare allo stato di lingua. E ciò per la ragione stessa, che non c’è mai potuta ritornare la latina morta, la quale, per quanto sia stata scritta dopo, è rimasta e rimane morta, che è appunto dire non più lingua; cioè per non esserci una società effettiva e intera, che l’adopri a tutti gli usi della vita. Chè lo scrivere non è, nè può essere l’istrumento d’un pieno commercio sociale, non c’essendo, e non ci potendo essere tra scrittori e scrittori quella totalità di relazioni che produce quella totalità, più o meno grande, di vocaboli, che si chiama una lingua. Quantità, ripeto, accidentale e circoscritta anch’essa, e alla quale non può convenire in nessuna maniera, e per nessun titolo, il nome di lingua, che, non propriamente, ma per un traslato manifesto e innocuo, s’adopra in tutt’altre locuzioni, come quando si dice: la lingua della chimica, la lingua dell’arti, la lingua del foro, e simili. In questi casi quel nome si trasporta, non senza un’analoga logica, e certamente senza pericolo d’equivoco, a una collezione parziale, ma sistematica e, relativamente, una e intera, di vocaboli; e le parole che ci s’aggiungono per indicare la materia particolare a cui si circoscrive il traslato, avvertirebbero, se ce ne fosse bisogno, che non si pretende di significare una lingua davvero. La formola «lingua scritta,» non è che un vero abuso di parole, che enuncia e propaga un concetto, non metaforico, ma falso. Enuncia un concetto falso, perchè trasporta quel nome, con l’intento di serbargli il suo significato proprio, e lo trasporta, non a una collezione, ma a un miscuglio di vocaboli, non intero in nessun senso, e vario nello stesso tempo; giacchè, dov’è la cagione per cui negli scritti devano entrare tutte le cose di cui occorre di parlare? e dov’è la cagione per cui da scrittori aventi diversi idiomi, quelle cose dovrebbero esser nominate in una maniera uniforme? E propaga questo falso concetto, perchè, lasciando al nome la nozione d’universalità, che gli è naturale, e non specificando che un modo, induce molti a creder di credere che quel fortuito e vario miscuglio sia una lingua. Dovrebbero, è vero, esaminare se la scrittura sia il modo naturale, essenziale, formale e adequato (che è tutt’uno) delle lingue; ma la potenza delle formole false, anti-logiche (come questa, che col sostantivo predica un tutto, e con l’aggettivo, alcune cose) viene appunto dall’esserci molti che non fanno di questi esami.
« O finalmente sono vocaboli fiorentini diventati più o meno comuni a tutta l’Italia, e questi soli sono, non meri fatti d’unità, ma fatti iniziali d’un’intera unità; sono una parte già acquistata d’un tutto, la vanguardia, dirò così, d’un esercito già formato. Sono vocaboli venuti o presi da un luogo dove c’è una lingua da potersi e diffondere e prendere; con de’ mezzi diversi bensì, ma concordi, perchè diretti da un solo principio, e a un solo e generale intento. E dico una lingua fatta: non fatta insieme e da farsi, come la vostra. Contradizione, del resto, comune a tutti i sistemi che propongono per lingua italiana tante cose diverse, e nessuno che abbia la vera ed unica cagione efficiente delle lingue. Ciascheduno vuol provare che la sua lingua c’è; quando poi si tratta di trovarla per servirsene, ciascheduno insegna una maniera, anzi più maniere di comporla. Promettono una lingua esistente, e danno una lingua possibile, cioè possibile secondo loro; giacchè com’è possibile una lingua senza una società che l’adopri a tutti gli usi della vita, val a dire una società che la parli? »
Quando ho chiesto all’indulgente, non meno che dotto e benemerito signor Cavaliere Carena il permesso di disputare con altri, per dir così, in sua presenza, e insieme gli ho chiesto anticipatamente scusa della lungaggine, non prevedevo, per dir la verità, che sarebbe arrivata a questo segno. Perdoni, di grazia, ogni cosa al mio desiderio di rendere omaggio,