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418 | lettera |
«Chè questo pigro e svogliato, ma non interrotto consenso; combattuto e rinnegato con formali e risolute parole, ma confermato indirettamente e involontariamente, con altre parole, da que’ medesimi che lo rinnegano; consenso tutt’altro che aiutato da circostanze favorevoli, ma non potuto abolire dalle circostanze contrarie, ha pur dovuto produrre qualche effetto, anzi un effetto mutabile, quantunque ben lontano dal corrispondere all’intento. Vedete infatti quanta parte di quella che chiamate lingua comune, voglio dire quanti vocaboli noti, più o meno, alle persone colte di tutta l’Italia, e usati da questa, negli scritti principalmente, non siano altro che vocaboli comuni in Firenze, cioè usati da ogni classe di persone, usati in ogni circostanza, usati unicamente. Se, per esempio, vi domando come sapreste nominare in italiano quella cosa che alcuni di noi chiamano erbion; altri, arveje; altri, rovaiott; altri, bisi; altri, pois; altri, poisci; altri con altri nomi ugualmente strani per una gran parte d’Italia, rispondete tutti a una voce: piselli. Che è appunto il vocabolo usato in Firenze, e scrivendo e parlando, e dal padrone e dal servitore, e dal georgofilo e dall’ortolano, e nel palazzo Riccardi e in Mercato vecchio. E questo è un esempio tra mille, o, grazie al cielo, tra alcune migliaia. Ma se volete vederne una certa quantità tutt’in una volta, nulla è più a proposito di questo Vocabolario domestico, saggio prezioso d’un’opera necessaria. In esso voi trovate, insieme a que’ vocaboli novi, i quali (pare impossibile!) vi facevano uggia, anche dei vocaboli noti a noi altri e in tutta Italia, come il citato dianzi; e fiorentini gli uni e gli altri, meno poche eccezioni; tanto poche da potersi non tenerne conto. E che altro sono questi vocaboli noti, se non una parte di lingua fiorentina, diventata italiana anche di fatto? E questo per diversi mezzi, imperfetti, sconnessi, in parte opposti, che non importa qui d’enumerare; ma per la sola cagione di quel quantunque pigro e svogliato e combattuto consenso.
« È vero, verissimo che non sono questi i soli vocaboli comuni, in una o in altra maniera, a tutta l’Italia; ma cos’è il rimanente? Ho detto poco fa, che l’esame di questo fatto, messo sempre in campo, e non mai analizzato; sarebbe molto utile; e dovevo dire che è necessario; se si vuol trattare una volta la questione davvero, e quindi finirla; giacchè come si potrà mai trattare e finire una questione di fatto, se non s’esamina il fatto medesimo? se, parlando d’un fatto moltiplico e composto, non si guarda di quali elementi sia composto, e si crede che basti indicarlo con un termine collettivo, come: vocaboli comuni? Vedete dunque se i vocaboli comuni a tutta l’Italia non sono infatti un resultato di varie cagioni, e più particolarmente, se non si riducono in ultimo a quattro categorie.
« O sono vocaboli comuni materialmente a tutta l’Italia, perchè si trovano in tutti gli idiomi d’Italia, quantità accidentale e circoscritta, che non è, nè una lingua intera, nè parte d’una lingua sola, bensì di molte.
« O sono vocaboli nati in un luogo qualunque d’Italia, o anche, e per lo più, di fuori, e diffusi per tutta l’Italia insieme con la notizia delle nove cose significate da essi, per esempio, macchine, scoperte, istituzioni. opinioni: altra quantità accidentale e circoscritta, che non è una lingua, nè parte d’una lingua sola, ma di molte, e spesso di lingue le più disparate.
« O sono vocaboli diventati comuni a tutta l’Italia per essere stati messi fuori da scrittori, i libri de’ quali siano letti in tutta l’Italia; ed è ciò che da molti s’intende per lingua italiana, ora esclusivamente, ora insieme con dell’altre cose, perchè le teorie arbitrarie non possono star ben ferme in un punto; è ciò che, (tanto delle parole si può far ciò che si vuole!) fu anche chiamato lingua scritta. Ma, se vogliamo badare alle cose, e alla ragione delle cose, quantità accidentale e circoscritta anch’essa, e che