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416 | lettera |
liani. Anzi, dirò, anche qui, giacchè è, in altri termini, la questione di poco fa, non ci sarebbe l’occasione di fare una tale obiezione, giacchè a chi sarebbe mai venuto in mente di proporre una massa di vocaboli novi, da sostituirsi a de’ vocaboli noti, e significanti il medesimo? Abbiamo già visto, e per vederlo è bastato aprir gli occhi, che il fatto è tutt’altro. Dico di più, che si poteva averne una fondata persuasione, anche senza esaminarlo, giacchè i fatti che sono i più facili a riconoscersi nella realtà, sono anche, il più delle volte, facili a congetturarsi dalle cagioni, quando siano manifeste. Date, infatti, un’occhiata a una carta dell’Italia, e un’occhiata alla sua non di rado splendida, ma sempre dolorosa storia. Nella prima, voi ci vedete Firenze, a un di presso nel mezzo; nell’altra, una divisione, uno sminuzzamento variato ogni momento, ma perpetuo, di Stati: sola inconstantia constans. E dite un poco donde sarebbe venuto che gli abitatori di questi pezzi e bocconi d’Italia si fossero formata tra di loro un’uniformità di vocaboli, saltando Firenze; dite che opportunità, che necessità avrebbero avuta di mantener tra di loro una continua, generale comunicazione d’idee; e Firenze in un cantuccio. No: ognuno di que’ vocaboli novi per una gran parte d’Italiani, non viene a prendere il posto d’un vocabolo noto ad essi, ma di molti vocaboli noti, uno a una parte di quella parte, uno a un’altra, e via discorrendo. Saranno novi! Sicuro: quando la cosa manca, bisogna o farne di meno, o adattarsi a prender del novo. Non si tratta qui di scegliere tra un novo e un noto, ma tra un novo, da potere, quando si voglia, far diventar noto, e il nulla; giacchè il diverso equivale al nulla, per chi cerca un identico.
Ricapitoliamo. Perchè si dice (e, del resto, con una bonissima ragione) lingua italiana: voi volete che la cosa significata da questo nome deva esser necessariamente una cosa comune di fatto a tutta l’Italia, senza cercar poi se i vocaboli comuni, in qualunque maniera, a tutta l’Italia costituiscano una lingua. Siccome però l’uomo può bensì (fino a un certo segno e nella sfera delle sue cognizioni) chiamare, anche lui, le cose che non sono come quelle che sono, ma con la differenza, che non vengono; siccome, per conseguenza, dovete par vedere che la cosa da voi chiamata lingua non ha di che produrre gli effetti veri, interi, naturali, essenziali, di lingua; così vi trovate costretti a concedere, ad approvare che le si cerchi un sussidio. E in questa maniera, dopo averla proclamata lingua, le imponete una condizione alla quale nessuna lingua che lingua sia, è stata nè sarà mai assoggettata; giacchè chi ha mai compresa nel concetto di lingua la necessità d’accattar vocaboli, non per arricchirsi, ma per essere? non per accrescere le sue operazioni, ma per farle? non per nominar cose novamente pensate, o scoperte, o venute di lontan paese, ma cose di cui parlano tutti quelli che la possedono? »
« Come poi sia nato questo concetto singolare d’una lingua che deve ricevere il compimento del suo essere da un dialetto; se questo sia stato veramente il concetto primitivo, o un ripiego immaginato più tardi da persone che, trovando quel dialetto accettato generalmente in Italia per lingua dell’Italia, non volevano accettarlo anche loro come tale, e insieme non vedevano, nè come poterlo far rifiutare affatto dagli altri, nè come se ne potesse far di meno; sarebbe una ricerca interessante; ma non è punto necessaria per aver ragione di dire che, con questo, venite a negare in fatto l’essere di lingua alla cosa a cui ne date il nome. Quando poi si viene un po’ più al particolare, e si cerca che ufizio deva fare l’altra cosa accettata da voi, solamente come sussidiaria, si trova che non può fare se non quello che conviene al suo essere, e al nostro intento, cioè l’ufizio di lingua; giacchè e essa è una lingua e non altro, e ciò che vogliamo tutti, se ci rendiamo conto di ciò che vogliamo, è una