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412 | lettera |
ci vuole una cosa che abbia la stessa virtù, la stessa natura, che sia prodotta dalla stessa cagione; cioè un altro dialetto.
«O piuttosto, intendiamoci sul significato di questa parola; perchè ne può ricever due, molto diversi. E il mettere in chiaro l’anfibologie non è un far questioni di parole: è anzi l’unico mezzo di farle finire; come il mezzo d’evitarle sarebbe di dare addirittura alle parole un significato solo e preciso.
«O, dunque, li chiamate dialetti per significare che ognuno d’essi non è generalmente noto e usato, se non in una parte d’Italia; e allora il termine esprime un fatto indubitabile, ma che non conclude niente per la questione: allora opponendo dialetto a lingua, mettete in opposizione due cose, tra le quali non c’è opposizione; giacchè ciò che costituisce una lingua, non è l’appartenere a un’estensione maggiore o minore di paese, ma l’essere una quantità di vocaboli adequata agli usi d’una società effettiva e intera. O li chiamate dialetti, in quanto differiscano, più o meno, da una lingua comune; e allora il termine non è altro che una tremenda petizione di principio; poichè dà per supposto ciò che va esaminato: cioè che ci sia una lingua, vera lingua, comune di fatto all’Italia. Certo, se ci fosse questa lingua comune di fatto, bisognerebbe combatter ferocemente quelli che pretendessero di sostituire ad essa un linguaggio particolare..... cioè, ho sbagliato: non ci sarebbe bisogno di combatterli, perchè non ci sarebbero. Si può egli immaginare che, se gl’Italiani possedessero in effetto un mezzo comune di significare le cose di cui parlano tutti, sarebbe venuto in mente ad alcuno di dir loro: fateci un piacere, per le nostre bellezze; rinunziate a questo mezzo di cui siete in possesso e in esercizio, per prenderne un altro; morite, per resuscitare con comodo in un’altra forma; smettete, dimenticate tutti codesta lingua comune, per imparar tutti la lingua d’un cantuccio privilegiato? Si può egli immaginare, che una stravaganza simile sarebbe caduta nella mente d’un uomo solo, il quale non fosse pazzo, non che stabilirsi e regnare nelle menti di moltissimi, e passare di generazione in generazione, e dirsi comunemente lingua toscana nel senso non solo di lingua, ma della lingua degl’Italiani, principiando dal contadino che chiama ancora toscana la spiegazione del Vangelo del suo curato, fino al Tasso, che dice nella Gerusalemme: «Se tanto lice ai miei toscani inchiostri;» e ne’ Discorsi dell’arte poetica, più e più volte, «lingua toscana, favella toscana, la nostra lingua toscana,» e che, per lasciare altre espressioni simili sparse nelle sue opere, intitolò un suo dialogo: «Della poesia toscana»? Per chiunque voglia riflettere, questo solo esserci, da cinque secoli, una successione di gente, la quale afferma, più o meno esplicitamente, che la lingua toscana è la lingua degl’Italiani; anzi il solo esserci da quel tempo, altri che rifiutano espressamente, e combattono acremente una tale opinione, sarebbe un argomento indiretto, ma fortissimo, che gl’Italiani non possedano in effetto una lingua comune. Argomento superfluo, del rimanente, per chiunque voglia (cosa tanto facile) osservare direttamente il fatto.
«Vedete dunque che tutta la forza di questa parola dialetto non nasce, nella questione presente, che da una supposizione arbitraria; come avete dovuto vedere, che, considerati in sè, nella loro essenza, e astraendo da ogni relazione accidentale e estrinseca, quelli che chiamate dialetti italiani, sono di quelle cose che il senso universale degli uomini chiama lingue. Il loro difetto è d’esser molti: difetto, dico, relativamente a noi Italiani tutti quanti, che, per ragioni più che bone, vogliamo averne una. E per arrivare a questo fine, se ci s’avesse a pensare ora per la prima volta, il mezzo più naturale sarebbe, non d’immaginarsi, contro la realtà