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sulla lingua italiana 411

parte meno istrutta delle diverse popolazioni; ma le persone civili, colte, letterate: non dico le parole che il servitore non intenderebbe; dico le cose che il padrone non saprebbe come nominare. Quante cose, dico, e modificazioni e relazioni di cose, quanti accidenti giornalieri, quante operazioni abituali, quanti sentimenti comuni, inevitabili, quanti oggetti materiali, sia dell’arte sia della natura, rimarrebbero senza nome! Quante volte si dovrebbe fare come quel cherico che, obbligato, per legge del seminario, a parlar latino, e volendo chiedere a un compagno le smoccolatoie, allontanava e riaccostava l’indice e il medio, accennando insieme la moccolaia della candela, e dicendo: da mihi quod facit ita! Sapreste voi altri stendere in termini italiani nel vostro senso, cioè comuni di fatto a tutta l’Italia, l’inventario di ciò che avete nelle vostre case? Di grazia insegnatemi il come, perchè io non lo conosco. L’aver noi in quelli che chiamate dialetti, altrettanti mezzi di soddisfare, non in comune, ma in diverse frazioni, i bisogni del commercio sociale, è ciò che vi fa dimenticare questi bisogni, e gli effetti corrispondenti delle lingue, quando parlate di lingua italiana; è ciò che vi fa associare al nome di lingua, non l’idea universale e perpetua d’un istrumento sociale, ma un concetto indeterminato e confuso d’un non so che letterario. Se non v’avesse a rimaner altro, v’accorgereste se è una lingua; vedreste se ci sia ragione d’esclamare, quando sentite dar questo nome a quelle che vi fanno essere uomini parlanti. Vedreste, anzi dovreste aver veduto, che una lingua, volendo mantenere a questo termine il suo vero senso, e il solo che sia utile e applicabile, non è una quantità qualunque di vocaboli: altrimenti sarebbe vana la distinzione di lingue vive e di lingue morte; giacchè anche queste hanno, o piuttosto ne rimane una quantità, e d’alcune una grande e splendida quantità di vocaboli; e non sono certamente mancate mai persone che le conoscessero più o meno, e le adoprassero, per quel tanto che possono servire. Ma la distinzione, tutt’altro che vana, anzi necessaria, è appunto in ciò, che queste quondam lingue non hanno una quantità di vocaboli corrispondente alle cose nominate da una società in vera e piena comunione di linguaggio: che è la condizione, anzi l’essenza medesima delle lingue. E dovete vedere che l’effetto, o piuttosto la mancanza dell’effetto, è uguale in quelle lingue morte, e in quella che chiamate lingua italiana: non perchè siano cose uguali in sostanza, giacchè quelle furono lingue, e codesta non è, nè fu; ma sono uguali nella parte negativa, cioè nel non esser lingue. Che ci sia una quantità di vocaboli comuni, in diversi gradi e per diverse cagioni, a tutta l’Italia, cioè alcuni più o meno noti a una parte delle diverse popolazioni, altri universalissimamente noti, anzi unicamente usati da ogni classe di persone in tutta Italia, è un fatto manifestissimo: e l’esame di questo fatto, o piuttosto di questi diversi fatti, e delle loro diverse cagioni, potrebbe esser molto utile, perchè aprirebbe la strada a osservare quale di queste cagioni possa produrre l’effetto intero, cioè la comunione, non d’alcuni vocaboli solamente, ma d’una lingua intera. Qui però basta l’aver veduto che questi vocaboli comuni, più o meno, di fatto, non costituiscono una lingua, perchè non sono, a gran pezzo, una quantità uguale alle cose di cui parla nè la società a cui volete che appartenga, nè un’altra società qualunque. Condizione, ripeto, essenziale delle lingue; e condizione che adempiscono, in vece, naturalmente e continuamente, ma pur troppo in diverse maniere, e in diverse piccole società, quelli che chiamate dialetti. Ma, di novo, chiamateli pure dialetti, se vi piace così, perchè siate costretti a riconoscere che, per prendere il loro posto, per fare in una sola maniera e in comune l’effetto che essi fanno in diverse maniere e separatamente,