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410 | lettera |
diffuse di queste? ma perchè, conosciute bensì, e adoprato in parte, e anche in gran parte, in una vasta estensione di paese, anzi di paesi, pure, per trovar l’una tutt’intera, e per trovarla sola, bisognava andare a Roma, come, per trovar l’altra, a Parigi. E le confesserò di più, ch’io riguardo la sua impresa come un argomento efficacissimo per dimostrare a coloro ai quali quest’opinione pare, non so s’io dica uno strano pregiudizio, o uno strano paradosso, che, in fondo, ne sono persuasi anche loro, e contradicono a sè medesimi quando la negano; e par loro anche troppa degnazione il negarla. Anzi le chiedo il permesso di rivolgermi a questi, e di litigar con loro, giacchè è la maniera che trovo più spiccia per esporle i motivi della mia qualsisia osservazione; o, dirò anche qui, per accennarli; poichè, se questa lettera sarà pur troppo eccessivamente lunga riguardo a ciò che vorrebbe la discrezione, sarà anche eccessivamente laconica riguardo a ciò che richiederebbe l’argomento.
«Se sentiste, dico dunque a questi molti, che un dotto Piemontese, non trovando in Torino de’ vocaboli, che possa chiamare italiani, per esprimere una quantità di cose che si nominano a tutto pasto in Torino, come in tutta l’Italia, è venuto a cercar questi vocaboli italiani a Milano, o è andato a Napoli, o a Genova, o a Bologna, sono sicuro che ridereste, vi parrebbe strano: vi pare strano anche il figurarselo. Ma quando sentite che questo dotto Piemontese va tutti gli anni a star qualche tempo a Firenze per un tal fine, non ridete punto, non vi pare punto strano. E questo, ve n’avvediate o no, è un riconoscere implicitamente che la lingua italiana è là. Dico la lingua assolutamente; perchè il supporre che ci sia una lingua in tutta Italia, ma che una parte di questa lingua si trovi solamente in Firenze, è dimenticare affatto cosa sia una lingua, è applicare il nome a ciò che non ha le condizioni della cosa. Una lingua mancante d’una sua parte è un concetto contradittorio. Una lingua è un tutto, o non è. Certo, e inevitabilmente, a una lingua mancano de’ vocaboli, l’equivalente de’ quali si trova in altre lingue; ma perchè? perchè gli uomini di quella lingua non hanno le cose corrispondenti a que’ vocaboli, e non hanno nemmeno l’occasione di parlarne. Le lingue che, appartenendo a una società scarsa di cose e di cognizioni, hanno pochi vocaboli, si chiamano povere, ma si chiamano lingue, perchè hanno ciò che è necessario a costituirle tali. E cos’è che costituisce una lingua? Cosa intende per questo nome il senso comune? Forse una quantità qualunque di vocaboli? No davvero; ma bensì una quantità (meglio un complesso; ma il termine più astratto di quantità basta alla questione presente) di vocaboli adequata alle cose di cui parla la società che possiede quella lingua, il mezzo con cui essa dice tutto quel molto o poco che dice. E quale è il mezzo con cui gl’Italiani dicono tutto quello che dicono? Ahimè! non è un mezzo, sono molti; e per chiamar la cosa col suo nome, sono molte lingue: la lingua di Torino, quella di Genova, quella di Milano, quella di Firenze, quella di Venezia, con un eccetera pur troppo lungo.»
Lingue? mi par di sentirli esclamare: lingue codeste? La lingua è quella che è comune a tutta l’Italia: codesti non sono altro che dialetti.
«Chiamateli come vi piace, rispondo: ma vediamo un po’ cosa sono in effetto, e cos’è in effetto quell’altra cosa che chiamate lingua. E per vedere e l’uno e l’altro in una volta, supponete che, per uno strano miracolo, tutti questi che chiamate dialetti cessassero tutt’a un tratto d’esistere; che dimenticassimo ognuno il nostro, e ci trovassimo ridotti a quella che chiamate lingua comune. Come s’anderebbe avanti? Come vi pare che potremmo intenderci, non dico tutti insieme, napoletani, milanesi, romani, genovesi, bergamaschi, bolognesi, piemontesi, e via discorrendo; ma in una città, in un crocchio, in una famiglia? E non dico la