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egli evidente, che una ragione qualunque non ha il suo intero e sicuro valore, che dall’essere definitiva? Ma l’intelletto umano non può, per la sua limitazione, vedere, nè molti particolari nelle cose, nè molte relazioni tra di esse, se non prendendo poche di queste cose per volta, e riducendole a delle ragioni che non sono ultime, se non riguardo a quel complesso speciale. Ragioni che possono esser fondate, perchè effettivamente, quantunque tacitamente, connesse e concordi con delle ragioni superiori e veramente ultime; e possono essere arbitrarie e false, perchè opposte a queste, nella stessa maniera. Ora, è all’una o all’altra, o a una moltitudine indeterminata e fortuita di quelle ragioni condizionate, e secondarie, dependenti, anche quando siano vere, che gli uomini accennati danno il nome di filosofia, nel senso bono e onorevole. E quando vogliono lodarla bene, la chiamano filosofia pratica: filosofia, perchè subordina, o davvero o in apparenza, a una ragione comune, o fondata o arbitraria, un certo numero di concetti; pratica, perchè questi concetti sono più immediatamente applicabili ai fatti materiali. Ed è in vece la ricerca delle ragioni ultime, che essi chiamano filosofia in un senso di riprovazione, o almeno di compassione, per il motivo contrario, cioè perchè non ci si vede quell’applicabilità immediata. È come chi ridesse del primo anello della catena a cui è attaccata l’àncora, perchè l’àncora non è attaccata ad esso. Cosa se ne fa di questa metafisica? dicono: a cosa serve? A cosa? A cercare i fondamenti delle teorie, sulla fede delle quali si fa; a esaminare ciò ch’esse suppongono; a guardare ciò che danno per veduto; a cimentare, col paragone della filosofia, se sono filosofiche davvero; a mettere in luce e alla prova la metafisica, latente e sottintesa, della quale sono conseguenze, più o meno mediate, più o meno conosciute per tali.... Volevo finire, e sarebbe ora; ma cosa volete? mi s’affaccia, anzi mi trovo tra’ piedi un esempio così a proposito, del metter capo che fanno a quell’ultime ragioni le cose più disparate; che non posso lasciarlo andare. Ed è questa nostra discussione medesima. Dal disputare sull’invenzione artistica, siamo riusciti a parlare della giustizia. E, certo, non paiono, nè sono argomenti de’ più vicini tra di loro: eppure, in ultimo, è sempre la stessa questione.

secondo.

Ancora dell’insidie? e contro un povero nemico, che oramai ha rese l’armi? Ditelo addirittura, che è una conclusione preparata e condotta da voi, ut illuc redeat, onde discessit, oratio.

primo.

Questa volta no, davvero; e mi dispiacerebbe proprio, che credeste effetto d’un mio artifizio ciò che è un incontro naturale e spontaneo della verità con la verità. La nostra questione era: se un oggetto qualunque ideato da un artista fosse un prodotto della sua operazione, una creatura della sua mente, o avesse un essere suo proprio, anteriore ad essa, Inde-pendente da essa. E s’è trovato che quell’oggetto qualunque, non per alcuna relazione speciale con l’invenzione artistica, ma per la sua natura d’oggetto della mente, d’idea, aveva infatti questo suo essere, e un essere eterno, inalterabile, necessario. L’altra questione (non tra noi due, però) è ugualmente, se l’idea della giustizia sia o non sia un prodotto della mente, del ragionamento umano, e quindi si possa, o non si possa, trasformare, disfare, mettere al niente dal ragionamento medesimo. La differenza è nella qualità degli oggetti, cioè nell’essere uno una specie verosimile, l’altro una legge morale: l’identità è nell’essere e l’uno e l’altro oggetti dell’intelligenza, entità intuibili dalla mente, idee. E non per altro a questa questione si riducono quelle due così lontane l’una dall’altra