Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/408

metafisica, quella del fatto, che metta fuori e stabilisca dell’altre conseguenze, opposte a quelle, incompatibili con quelle. Ma che dico, metta fuori? Si tratta qui forse di scoperte? C’è egli bisogno di dimostrare, d’insegnare alla massima parte degli uomini, che la giustizia è una cosa diversa dall’utilità, e independente da essa? Quando Aristide disse al popolo ateniese, che il progetto comunicatogli all’orecchio da Temistocle,, era utile, ma non giusto, fa inteso da tutti: sarebbe stato inteso ugualmente da qualunque moltitudine, in qualunque tempo. E sapete perchè? Perchè l’intelletto intuisce l’idea di giustizia e l’idea d’utilità, come aventi ognuna una sua essenza, una verità sua propria, e quindi come distinte, come inconfusibili, come due. La moltitudine, poi

Che apprese a creder nel Figliuol del fabro,


sa, o piuttosto queste tante e così varie moltitudini sanno di più (e lo dicono a ogni occasione, non in termini, ma implicitamente) che quelle due verità, quantunque distinte, si trovano, appunto perchè verità, riunite in una verità comune e suprema; sanno che, per conseguenza, non possono trovarsi in contradizione tra di loro; e riguarderebbero come stoltezza, non meno che come empietà, il pensare che la giustizia possa essere veramente e finalmente dannosa, l’ingiustizia, veramente e finalmente utile. E sanno ancora che, non solo queste due verità distinte sono legate tra di loro, ma una di esse dipende dall’altra, cioè, che l’utilità non può derivare se non dalla giustizia. Ma sanno insieme, che questa riunione finale non si compisce se non in un ordine universalissimo, il quale abbraccia la serie intera e il nesso di tutti gli effetti che sono e saranno prodotti da ogni azione e da ogni avvenimento, e comprende il tempo e l’eternità. E dico che lo sanno, perchè quest’ordine ha un nome che ripetono e che applicano a proposito, ogni momento: la Provvidenza. Sanno ugualmente, e non potrebbero non saperlo, che quest’ordine passa immensamente la nostra cognizione e le nostre previsioni; e sono quindi lontane le mille miglia dall’immaginarsi che, in un incognito di questa sorte, in un complesso di futuri, che per noi è un caos di possibili, si possa cercare nè l’unica nè la principale e eminente regola delle deliberazioni umane. Sanno che questa regola principale e eminente è data loro con la legge naturale, e con la legge divina che ne è il compimento da Quello a Cui nulla è incognito, perchè tutto è da Lui. E quindi, insieme a quell’ordine universalissimo, anzi in esso, ogni più rozzo cristiano vede, per quanto gli è necessario di vedere, un altro ordine particolare, relativo a lui, e del quale egli è suborditanamente il fine: ordine ugualmente misterioso e oscuro, anche per lui, ne’ suoi nessi e ne’ suoi modi; ma chiaro per la parte che tocca a lui a prenderci, perchè illuminato da quella regola, seguendo la quale (e sa che Dio gliene darà il discernimento sicuro e la forza, se la chiede sinceramente) sarà giusto e quindi felice. Sa che Opus justi ad vitam, per quanto la strada che conduce dall’uno all’altro, sia scabrosa, e possa parer tortuosa, e spesso anche rivolta al termine opposto. Dove poi quella regola cessa d’essere direttamente applicabile, cioè ne’ casi in cui essa non gli dà nè un comando, nè un divieto, lì trova da applicare la regola secondaria e congetturale degli effetti possibili e più o meno probabili, più o meno desiderabili. Regola incerta e fallibile, ma ristretta a cose dove lo sbaglio non gli può mai esser cagione d’un danno finale; dove, attraversando una riuscita infelice, continua la sua strada verso la felicità, quando sia stato guidato da una retta intenzione, e da quella prudenza, che ha certamente diversi gradi ne’ diversi ingegni, ma che non si scom-