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compita perfezione intellettuale e morale, e d’una felicità uguale, come conveniente, a quella; e quando non si vuol credere alla rivelazione che insegna nello stesso tempo, come l’uomo sia stato realmente costituito in un tale stato, come ne sia decaduto, come possa avviarcisi di novo, dove arrivare a ripossederlo, e più sublime; qual maraviglia che si vadano sognando altri modi, e fantasticando altri mezzi di soddisfare un desiderio così potente e, in sè, altamente ragionevole? L’errore non è intorno al diritto, ma intorno al fatto; la chimera è ne’ modi e ne’ mezzi, non nel fine; e il fine è bensì deformato, avvilito, spostato, ma non inventato: nè si potrebbe inventare, se non fosse. E quelli che, non ricevendo il domma, rigettano anche la chimera, voglio dire tutte le diverse forme d’una tale chimera, non riescono a tenersi in questo stato di mezzo, se non col tristissimo aiuto dello scetticismo o speculativo o pratico: cioè, o col rimanere in dubbio se l’uomo sia o non sia ordinato a una vera perfezione, e a una piena felicità; o col non pensarci. Quando poi, con de’ ragionamenti dai quali questa questione è lasciata fuori, si confidano di poter levar dal mondo quelle chimere, non riflettono che l’errore non si vince se non colla verità che esso nega o altera. La fede in una veramente perfetta felicità serbata a un’altra vita, non lasciava luogo a de’sogni d’una perfetta felicità nella vita presente: questa stessa fede è la sola che possa levarli di mezzo. E dico una felicità veramente perfetta, come quella che è prodotta dal pieno e sicuro possesso d’un Bene corrispondente alle nostre facoltà, perchè infinitamente superiore ad esse; le quali, conosciamo bensì che sono limitate, ma senza poterne trovare i limiti; e mentre le sentiamo incapaci, a un gran pezzo, e per ogni verso, d’abbracciare, nel nostro stato presente, tutti gli oggetti finiti, sentiamo insieme, che quando gli avessero potuti esaurire, rimarrebbero ancora capaci e desiderose di novi oggetti; dimanierachè il finito, che per esse è così troppo, non sarebbe mai abbastanza. Felicità veramente perfetta, ripeto, perchè prodotta dall’intendere, dal sentire, dall’amare questo Bene infinito, con tutte le forze dell’intelligenza, del sentimento, dell’amore, cioè dal più retto e intenso e tranquillo e continuo esercizio di queste potenze; per mezzo delle quali sole abbiamo pure quella scarsa misura di godimento che possiamo ricevere, nella vita presente, da qualsisia oggetto. Chè così il più rozzo cristiano intende la beatitudine eterna, quantunque non la sappia esprimer così. Con delle teorie d’un meno male, non si soffogano, come non s’appagano, le aspirazioni, anche false e disordinate, a un bene compito. E quelli che, prendendo qua e là dagl’invisibili insegnamenti del cristianesimo ciò che a loro par meglio, propongono la rassegnazione senza la speranza, non si maraviglino di trovarsi a fronte chi predica la speranza senza rassegnazione. Utopie insensate, dicono; e non s’avvedono che è un’utopia insensata anche il pensare che l’umanità possa acquietarsi nel dubbio. Non basta aver che fare con degli avversari che abbiano torto: bisogna aver ragione. Stringersi nelle spalle quando s’arriva alle questioni primarie, non è la maniera di terminare quelle che ne dipendono. La vittoria definitiva e salutare, Dio sa a qual tempo serbata, e con quali nove e forse più gravi vicende di mezzo, sarà quella della verità sugli uni e sugli altri, sul falso e sul nulla. Fino allora continueranno a potersi applicare agli uni e agli altri quelle parole d’Isaia: Declinabit ad dexteram, et esuriet; et comedet ad sinistram, et non saturabitur; e quell’altre non meno a proposito: Inite consilium, et dissipabitur; loquimini verbum, et non fiet. Ma vedete un poco come questo benedetto presente, quando non si prende per tema, si ficca nel discorso, come digressione. Torniamo a quel terribile e deplorabile discepolo del Rousseau. Persuaso, come ho detto, che delle istituzioni fossero l’unico ostacolo a uno stato perfetto della società, e del-