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importanza, di tanto rischio, di tanta estensione, che bisogna essere cervelli oziosi, per occuparsi delle cagioni. Se ci fu mai un’epoca in cui le speculazioni metafisiche siano state produttrici d’avvenimenti, e di che avvenimenti! è questa, della quale siamo, dirò al mezzo? o al principio? Dio solo lo sa; certo, non alla fine. Per non parlar del momento presente, vedete la prima rivoluzione francese. Ne prendo il primo esempio che mi s’affaccia alla mente: quello d’un uomo eternamente celebre, non già per delle qualità straordinarie, ma per la parte tristamente e terribilmente principale, che fece in un periodo di quella rivoluzione: Robespierre. Giudicato dalla posterità, dirò così, immediata e contemporanea, per null’altro che un mostro di crudeltà e d’ambizione, non si tardò a vedere che quel giudizio, come accade spesso deprimi, era troppo semplice; che quelle due parole non bastavano a spiegare un tal complesso d’intenti e d’azioni; che, nel mostro, c’era anche del mistero. Non si potè non riconoscere in quell’uomo una persuasione, independente da ogni suo interesse esclusivo e individuale, della possibilità d’un novo, straordinario, e rapido perfezionamento e nella condizione e nello stato morale dell’umanità; e un ardore tanto vivo e ostinato a raggiunger quello scopo, quanto la persuasione era ferma. E di più, la probità privata, la noncuranza delle ricchezze e de’ piaceri, la gravità e la semplicità de’ costumi, non sono cose che s’accordino facilmente con un’indole naturalmente perversa e portata al male per genio del male; nè che possano attribuirsi a un’ipocrisia dell’ambizione, quando, com’era il caso, non abbiano aspettato a comparire nel momento che all’ambizione s’apriva un campo inaspettato anche alle più ardite aspettative. Ma un’astrazione filosofica, una speculazione metafisica, che dominava i pensieri e le deliberazioni di quell’infelice, spiega, se non m’inganno, il mistero e concilia le contradizioni. Aveva imparato da Giangiacomo Rousseau, degli scritti del quale era ammiratore appassionato, e lettore indefesso, fino a tenerne qualche volume sul tavolino, anche nella maggior furia degli affari e de’ pericoli, aveva, dico, imparato che l’uomo nasce bono, senza alcuna inclinazione viziosa; e che la sola cagione del male che fa e del male che soffre, sono le viziose istituzioni sociali. È vero che il catechismo gli aveva insegnato il contrario, e che glielo poteva insegnare l’esperienza. Ma il catechismo, via, non occorre parlarne; e l’esperienza, tutt’altro che disprezzata in parole, anzi esaltata, raccomandata, prescritta, era, in fatto, da quelli che non si curavano del catechismo, contata, e consultata quanto il catechismo, e ne’ casi appunto dove il bisogno era maggiore; cioè dove si trattava di verificare de’ fatti posti come assiomi fondamentali, con affermazioni tanto sicure, quanto nude, con de’ sic volo, sic jubeo. Sul fondamento dunque di quell’assioma, era fermamente persuaso che, levate di mezzo l’istituzioni artifiziali, unico impedimento alla bontà e alta felicità degli uomini, e sostituite a queste dell’altre conformi alle tendenze sempre rette, e ai precetti semplici, chiari e, per sè, facili, della natura (parola tanto più efficace, quanto meno spiegata), il mondo si cambierebbe in un paradiso terrestre. La quale idea, non è punto strano che nascesse in menti che non credevano il domma del peccato originale; come non bisogna maravigliarsi se la vediamo ripullulare sotto diverse forme. Chè i dommi si possono bensì discredere; ma c’è un’altra, dirò così, rivelazione del cristianesimo, la quale non è così facile a rinnegarsi nè a dimenticarsi da chi ha respirata l’aria del cristianesimo voglio dire particolarmente una cognizione e della natura dell’uomo e di ciò che riguarda il suo fine, molto più sincera e più vasta, e la quale, acquistata che sia, vien mantenuta e confermata ogni momento dalla testimonianza dell’intimo senso. È la rivelazione che ci ha sollevati a conoscere con chiarezza, che l’uomo è capace d’una somma e, relativamente,