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derni, e collocarsi nella prosa. Con che non intendo certamente d’unirmi a quelli che piangono, o che piangevano (giacché la dovrebb’esser finita) quelle età così poetiche del gentilesimo, quelle belle illusioni perdute per sempre. Ciò che ci fa differenti in questo dagli uomini di quelle età, è l’aver noi una critica storica che, ne’ fatti passati, cerca la verità di fatto, e, ciò che importa troppo più, l’avere una religione che, essendo verità, non può convenientemente adattarsi a variazioni arbitrarie, e ad aggiunte fantastiche. È di questo che ci dovremo lamentare?
Ho detto: differenza essenziale; infatti, non è, come nell’epopea e nella tragedia (il rispetto dovuto agli uomini celebri, che hanno dato del loro alla cosa, non deve impedire di qualificar la cosa medesima), non è quella finzione grossolana, che consiste nell’infarcir di favole un avvenimento vero, e di più un avvenimento illustre, e perciò necessariamente importante. Nel romanzo storico, il soggetto principale è tutto dell’autore, tutto poetico, perché meramente verosimile. E l’intento e lo studio dell’autore è di rendere, per quanto può, e il soggetto, e tutta l’azione, tanto verosimile relativamente al tempo in cui è finta, che fosse potuta parer tale agli uomini di quel tempo, se il romanzo fosse stato scritto per loro.
Ma (e qui è l’inconveniente comune al romanzo storico con tutte le specie di poesia che inventano sopra un tempo passato) è scritto per degli altri. Mettiamo pure, che all’autore sia riuscito di comporre un racconto che agli uomini di quel tempo sarebbe parso verosimile. Un tale effetto sarebbe allora venuto dai confronto spontaneo e immediato, tra il generale ideato dall’autore, e il reale ch’essi conoscevano per esperienza; mentre, per produrlo in uomini d’un altro tempo, l’autore è ridotto a cercar di supplire all’esperienza con l’informazione, e di mettere, dirò così, in una sola composizione, l’originale e il ritratto. Non c’è il contrasto diretto tra il vero e il verosimile; e è senza dubbio un gran vantaggio; ma c’è ugualmente o la confusione dell’uno con l’altro, o la distinzione tra di essi. Anzi c’è, in proporzioni variabilissime, ma inevitabilmente, e confusione e distinzione, come s’è dimostrato, forse più del bisogno, nella prima parte di questo scritto.
Non c’è però da maravigliarsi che, durando la persuasione che la storia e l’invenzione potessero star bene insieme, sia venuto a un uomo di bellissimo ingegno il pensiero di comporli in una forma nova e più speciosa, e che dava luogo a una molto maggiore abbondanza e varietà di materiali storici. E c’è ancora meno da maravigliarsi che, messa in atto da quell’ingegno così immaginoso, e così osservatore, così fecondo e così penetrante, la cosa abbia prodotto nel pubblico di tutti i paesi colti quell’effetto straordinario che ognuno sa.
Ma basterà quel vantaggio per assicurare al romanzo storico almeno una lunga vita?
È una domanda poco allegra per chi gli vuoi bene. Nelle cose abusive, le correzioni vivono alle volte meno dell’abuso; e non c’è per l’errore nessun posto più incomodo, e dove possa meno fermarsi, che vicino alla verità. Non si può dissimulare che ciò che acquistò nel primo momento più favore a un tal componimento, fu appunto quell’apparenza di storia, cioè un’apparenza che non può durar molto. Quante volte è stato detto, e anche scritto, che i romanzi di Walter Scott erano più veri della storia! Ma sono di quelle parole che scappano a un primo entusiasmo, e non si ripetono più dopo una prima riflessione. Infatti, se per storia s’intendevano materialmente i libri che ne portano il titolo, quel detto non concludeva nulla; se per storia s’intendeva la cognizione possibile di fatti e di costumi, era apertamente falso. Per convincersene subito, sarebbe bastato (ma non sono cose a cui si pensi subito) domandare a se stessi, se il con-