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dov’essi hanno fatte le loro gran prove, sarà diventato angusto! Proporre l’abolizione di quelle regole pareva, non so se più una temerità da non tollerarsi, o una sciocchezza da compatirsi. Ma che? la storia, per fare nella tragedia quella grande irruzione che s’era fissata di fare, aveva proprio bisogno d’abbattere quel baluardo e l’abbattè. In Francia, non ne parliamo, e anche in Italia, da quello che sento, lo spettatore non ci patisce, e non si chiama offeso se, nel corso d’una tragedia, vede alzarsi una scena e venir giù un’altra, e se, in quelle tre o quattr’ore di seduta, il poeta pretende di fargli passare davanti alla mente più di quel benedetto giro di sole, nominato così innocentemente da Aristotele.
E si veda come una cosa tenuta indietro per forza, si ricatti, quando gli riesce finalmente di venire avanti. Fino allora i soggetti che nella storia fossero meno particolarizzati, erano parsi i più opportuni alla tragedia, come quelli che lasciavano più campo all’invenzione. Se la storia tace, diceva il poeta, tanto meglio: parlerò io. Ora in vece sono i poeti che, quando i particolari mancano nelle storie propriamente dette, vanno a cercarne in altri documenti, di qualunque genere, affine d’arricchire il soggetto, anzi di formarlo. Ben contenti se riescono a dare del fatto storico da essi rappresentato, un concetto più compito, più contenti ancora, se riescono a darne un concetto novo, e diverso dall’opinione comune. È appunto il contrario del famam sequere; ma come poteva essere altrimenti? È una pretensione troppo contradittoria, il volere che la poesia, per essere efficace, non stia indietro delle cognizioni del tempo, ne secondi, anzi ne prevenga le tendenze ragionevoli, e che non se ne faccia carico, per rimaner più libera.
Accennato il fatto, non mi resta che a fare alcune domande:
C’è egli qualcheduno il quale creda che la tragedia possa tornare a mettersi negli antichi confini, e far di novo a confidenza con la storia, come ha fatto per tanto tempo? O crede qualchedun altro, che, con l’allargare i confini, si sia trovata finalmente la giusta misura della parte che la storia deva avere nella tragedia, e la vera maniera di comporla con l’invenzione? E se ciò non si crede, c’è qualche ragione di credere che questa misura e questa maniera si possano trovare in avvenire?
Risponda e concluda il lettore.
Venendo finalmente al paragone tra l’assunto comune all’epopea e alla tragedia, e l’assunto del romanzo storico, è facile vedere che la differenza essenziale sta in questo, che il romanzo storico non prende il soggetto principale dalla storia, per trasformarlo con un intento poetico, ma l’inventa, come il componimento dal quale ha preso il nome, e del quale è una nova forma. Voglio dire il romanzo nel quale si fingono azioni contemporanee: opera affatto poetica, poiché, in essa, e fatti e discorsi tutto è meramente verosimile. Poetica però, intendiamoci, di quella povera poesia che può uscire dal verosimile di fatti e di costumi privati e mo-
alla rappresentazione possa e deva non contar punto più di quello che la qualità reale di verde metallico si conti nel verde d’un albero dipinto. Dire che la tragedia diventa falsa, se la rappresentazione non s’accorda con le circostanze reali dello spettatore. è dire che un quadro rappresentante una nevicata diventa falso per chi lo guarda nel mese di luglio. Non si tratta, né in pittura, né in poesia, di dare ad intendere (stolta parola in un tale argomento); ma di rappresentare de’ verosimili, cioè delle verità ideali.
In quanto poi all’essere que’ due precetti fedelmente osservati nelle tragedie greche, il Corneille, ne’ Discorsi citati sopra, addusse alcune prove in contrario, e molte più ne addusse poi il Metastasio nelle sue Osservazioni sopra tutte quelle tragedie; ma con tutto ciò, l’essere nelle tragedie greche osservati que’ due precetti, fu ancora per molto tempo, il fatto.