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questa differenza fa che il dramma non è lo stesso, quantunque sia uno solo il soggetto, del quale i due poeti hanno conservata l’azione principale.»

E per far questo, ebbero forse bisogno di temperare il precetto? Neppur per idea: l’eseguirono a un puntino, facendo l’uno e l’altro morir Clitennestra per mano d’Oreste; giacché il precetto non richiede nulla di più. O piuttosto prevennero un precetto indicato alla pratica dalle convenienze dell’arte, prima che Aristotele lo promulgasse. E questo potere ognuno inventare, senza inconvenienti, un intreccio e uno scioglimento a modo suo, veniva dal non avere ognuno contro di sé, se non altri intrecci, e altre maniere di scioglimenti. Erano poeti contro poeti, verosimili contro verosimili, non legati ad altro che a fatti e a caratteri, tanto più fecondi per l’invenzione, quanto più digiuni di circostanze obbligate. L’inventarne di nove non era una licenza che i poeti dovessero prendersi; era l’operazione propria della poesia. E a un bisogno l’attesterebbe Aristotele stesso, il quale aggiunge subito: «Tocca poi al poeta a inventare, e a far buon uso delle (favole) ricevute1.» Dà come una conseguenza naturale del precetto ciò che il Corneille chiede come un temperamento. E quel precetto era in sostanza il medesimo che fu poi espresso da Orazio con le parole: famam sequere2.

Del resto, né i temperamenti forzati del Corneille, né i suoi sempre ammirabili capolavori poterono sottrarre la tragedia alle sue perpetue variazioni, e costituirla, per ciò che riguarda le sue relazioni con la storia, in una forma stabile e definitiva.

Per nostra fortuna, o paziente lettore, non c’è bisogno di ripassare tutte quelle variazioni, nemmeno di corsa, come s’è fatto con l’epopea. Qui basterà accennare il fatto attuale, e le sue cagioni prossime. Del

  1. Ipsum autem invenire opertet, et traditis uti recte. Ibid.
  2. Altra obiezione possibile e da non dissimularsi. Anche il teatro greco ebbe tragedie storiche, e sul suo principio; per esempio, I Persiani d’Eschilo. Non starò qui a mettere in dubbio se questo componimento possa esser riguardato come una tragedia: giacché si potrebbe far lo stesso con altri dello stesso autore, il soggetto de’ quali è preso da’ tempi eroici. Dirò bensì che la tragedia greca non continuò per quella strada. Quelle di Sofocle e d’Euripide, e le molte di cui parla Aristotele nella Poetica, sono tutte composte sopra soggetti mitologici. Se il teatro greco fosse diventato storico, si sarebbe naturalmente trovato a’ medesimi passi de’ teatri moderni, e Aristotele sarebbe stato impicciato bene a trovargli le regole, se gliene avesse voluto trovare.
    Anche il teatro latino ebbe tragedie storiche, e di soggetti romani, e chiamate perciò Praetextae: e l’ebbe, se non così sul principio, cioè da Livio Andronico o da Nevio o da Ennio, certo non molto tardi, poiché tra le tragedie di Pacuvio, delle quali rimangono i titoli e de’ frammenti, c’è un Paolo (Emilio), e tra quelle d’Azzio, un Bruto e un Decio. Orazio loda in genere quella specie di tragedie, come un tentativo d’indipendenza letteraria:

                             Nil intentatum nostri liquere poetae;
                             Nec minimum meruere decus, vestigia graeca
                             Ausi deserere, et celebrare domestica facta;
                             Vel cui praetextas, vel qui docuere togatas.

    (De Arte poet., v. 285 et seq.). Ma il non dar lui alcun precetto per questa specie di componimenti, e l’accennarla soltanto, è una ragione di credere che non fosse molto coltivata; come il tornar che fa sempre sulla poesia d’argomenti greci, è un indizio, che questa fosse prevalente di molto. E un altro indizio per i tempi anteriori è il non essercene di Pacuvio che una sola, contro diciassette d’argomenti mitologici greci, e d’Azzio, due, contro più di cinquanta. Quintiliano, in quella breve rassegna che fa de’ principali generi di poesia, e de’ principali poeti (lib. X, cap. 1), non fa neppure menzione delle preteste. Non ce n’è rimasta alcuna, ed è una disgrazia: letteraria, s’intende. E non si potrebbe prenderne un’idea dall’Ottavia di Seneca, o d’un Seneca, qualunque fosse: essendo opera di tutt’altri tempi, e di tutt’altro gusto.