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parenza, che la memoria dello spettatore, il quale abbia lette altra volta queste circostanze, non l’avrà ritenute così fortemente, da farlo avvedere del cambiamento, abbastanza per accusarci di menzogna, come farebbe senza dubbio, se ci vedesse cambiare l’azione principale1

Così, mentre la tragedia antica si fondava sulla cognizione che lo spettatore doveva aver de’ soggetti, la moderna è costretta a fare assegnamento sulla dimenticanza.

Aiuto infelice; giacché non pare che deva esser bon segno in un’arte l’aver paura della cognizione. E aiuto, non solo incerto, ma precario; giacché se lo spettatore che aveva dimenticate le circostanze storiche del soggetto, e poté quindi, alla prima recita, godersi senza disturbo l’invenzioni poetiche; se, dico, uscendo dal teatro con un novo interessamento per quel soggetto, va a rinfrescarsi la memoria nel libro dove aveva lette quelle circostanze, non sarà più, alla seconda rappresentazione, lo smemorato che conveniva al poeta. Aiuto, finalmente, ricorrendo al quale, il Corneille contradice sé stesso; giacché, se le circostanze rimangono nell’arbitrio del poeta, cos’importa che lo spettatore si rammenti o non si rammenti quelle della storia? Ma che? il Corneille medesimo, nell’Esame che aggiunse a’ suoi componimenti, tocca più d’una volta l’alterazioni da lui fatte alla storia, e, per giustificarle, o anche per accusarsene candidamente, le manifesta; e leva così di sotto alla tragedia storica quella povera gruccia della dimenticanza altrui, che le aveva data. Darne di tali a un’arte, è un confessare che è diventata zoppa, e dargliele un Pietro Corneille, è un terribile indizio che non ci sia più il verso di rimetterla su’ suoi piedi.

Ma perché ebbe egli bisogno di cercar delle distinzioni in un precetto così semplice, de’ temperamenti per un precetto così discreto? Perché il precetto riguardava una cosa, e il Corneille, seguendo una consuetudine già invalsa, l’applicava anche a un’altra cosa, e diversissima. Aristotele parla delle favole ricevute2, e di queste dice che non si devono alterare; il Corneille paria di soggetti presi o dalla storia, o dalla favola, come se fosse tutt’uno. Ora, applicato alle favole ricevute, il precetto non ha bisogno né di temperamenti, né di distinzioni, poiché quelle non davano, né imponevano altro al poeta, che appunto l’azione principale: Clitennestra uccisa da Oreste, Erifile da Alcmeone. I mezzi e le circostanze rimanevano davvero nell’arbitrio de’ poeti. La storia in vece dà, insieme co’ soggetti, anche de’ mezzi e delle circostanze, che possono non accomodarsi con l’intento dell’arte. Quindi il bisogno di cambiarle, val a dire d’alterare i soggetti coi quali sono, per dir così, immedesimate. Che se la storia non le dà, le lascia desiderare; ma ciò non vuoi dire che un tal desiderio possa essere appagato col mezzo dell’invenzione poetica.

«L’esempio della morte di Clitennestra», aggiunge il Corneille, «può servir di prova alla mia proposizione. Sofocle e Euripide l’hanno trattata tutt’e due, ma con un intreccio e con uno scioglimento differente; e

  1. Second Discours sur l’art drammatique.
  2. Acceptas quidem igitur fubulas (mythous) solvere non licet. Dico autem, seu Clytemnestram necatam ab Oreste, vel Eriphylen ab Alcmaeone. Poet., cap. XI.
    Il vocabolo mythos passò anche a significare la forma particolare data all’azione da ciaschedun poeta; e in questo senso l’usa anche Aristotele, anzi la definisce: Est autem actionis quidem imitatio fabula: appello enim fabulam hanc compositionem rerum (Ibid., cap. IV). Nel passo citato sopra, però, non può voler dir altro che miti, nel senso proprio e primitivo del vocabolo. Infatti, come si potrebbe intendere che Aristotele prescrivesse al poeta d’attenersi alle tante e diverse composizioni degli altri poeti? Una tale interpretazione repugna e alla cosa, e agli esempi addotti da Aristotele, che non sono esempi di composizioni ma di semplici temi mitologici, come repugna al seguito del testo, che sarà citato or ora.