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mente, è quel riguardare l’epopea storica, non solo come una continuazione (era l’opinione comune), ma come un progresso dell’epopea primitiva, essenzialmente mitica. Come se quella che voleva esser la storia, e ch’era infatti presa per storia, e quella che, senza ottenere nè chieder fede, contraffà una storia, fossero la stessa arte, perchè la seconda ha imitate delle forme estrinseche della prima. Sarebbe un’arte di novo genere quella che, cominciata senza princìpi, li trovasse poi col cambiar l’intento e l’effetto, conservando delle forme estrinseche. E non sempre ciò che vien dopo è progresso.
C’è un’altra specie d’epopee, nelle quali può parere a prima vista, che il soprannaturale sia a suo luogo; cioè quelle i di cui soggetti sono presi dalla Storia sacra. Ma basta questo per far riflettere che soggiacciono anch’esse, quantunque in un’altra maniera, allo stesso inconveniente dell’altre. Sono rifacimenti d’una storia; e storia nel senso più stretto, e più sdegnoso. Non è il soprannaturale intruso nel soggetto; ma è l’invenzione intrusa nel soprannaturale. Un, direi quasi, istinto rispettoso e sommamente ragionevole ci avverte che, nelle manifestazioni straordinarie della volontà e della potenza divina, la mente umana non arriva a trovare una regola del verosimile, come la trova nel corso naturale delle cose, e nelle determinazioni della volontà umana. Gli squarci mirabili che si trovano nel Paradiso Perduto, e la virtù poetica che ci si fa sentire quasi per tutto, non possono fare che non produca l’effetto d’un’interpolazione perpetua. E anche la Messiade ha de’ pregi non volgari, e singolarmente quell’unione non infrequente del tenero e del sublime, che produce una commozione indistinta, e tanto più gradevole. Ma è un soggetto, quanto inesauribilmente fecondo d’applicazioni, altrettanto inaccessibile alle aggiunte.
Termino qui questi cenni sull’epopea, per passare alla tragedia; intorno alla quale avrò ancora meno a trattenermi. E s’intende che non si tratterà se non della tragedia storica, e in quanto storica.
Gl’inconvenienti che nascono in essa da ciò, differiscono e nel modo e nel grado, da quelli dell’epopea, per cagione d’una differenza essenziale nella forma de’ due componimenti. La tragedia non adopra, come l’epopea, un istrumento medesimo e per la storia e per l’invenzione, quale è il racconto. La parola della tragedia non ha altra materia, dirò così, immediata, che il verosimile. I discorsi che lo Shakespeare, il Corneille, il Voltaire, l’Alfieri, mettono in bocca a Cesare, è tutta fattura poetica, l’azioni che Lucano racconta di Cesare, possono essere o inventate o positive. Quindi, nel poema la parola può produrre, ora un effetto poetico, ora un effetto storico; o, non riuscendo a produrre nè l’uno nè l’altro, rimanere ambigua. Nella tragedia è sempre la poesia che parla; la storia se ne sta materialmente di fuori. Ha una relazione col componimento, ma non ne è una parte1.
- ↑ Per prevenire una minuta obiezione, devo osservare che in qualche tragedia sono messe in bocca a uno o a un altro personaggio delle parole storiche; come appunto il Tu quoque, Brute? di Cesare. Ma è un inconveniente raro e, per lo più, evitabile. Dico inconveniente perchè l’effetto di tali parole è di richiamar la mente dal mero verisimile ai reale. E so bene che ad altri può parere un vantaggio, un’occasione da non perdersi, questo poter far dire al personaggio ciò che l’uomo ha detto veramente. Ma non vedo come si possa trovar la poesia un’arte efficace e potente, e trovare insieme, che abbia a ricever forza da ciò che produce un effetto opposto al suo.
L’inconveniente poi non sarebbe evitabile nel caso citato, e in qualche altro, cioè quando le parole storiche siano celebri. Chè l’averle omesse il poeta non impedirebbe allo spettatore di rammentarsene; e il Cesare reale della storia verrebbe, nè più nè meno, a mettersi, nella mente di lui, a fronte del Cesare verisimile del poeta, come