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parte, si dice che, senza il maraviglioso, il poema non può essere che o una storia versificata, o una storia alterata senza ragione, perché dov’è la ragione di mutar le cause e le circostanze naturali e vere d’un avvenimento, per metterne in vece dell’altre, ugualmente naturali, ma false? Si dice dall’altra, che, in mezzo a fatti noti o conoscibili, de’ falsi prodigi paiono inevitabilmente eterogenei, come sono. Bone ragioni l’una e l’altra, diremo anche qui; ma bone a impedire e non a aiutare; dimanieraché l’epopea storica può dire al maraviglioso, come Marziale a quell’uomo d’umore variabile: «Non posso vivere nè con te, nè senza di te1.» Dopo diciotto secoli, si trova ancora ai bivio che incontrò ne’ suoi primi passi: o privarsi del maraviglioso, con Lucano; o riceverlo per forza, con Silio Italico. Senonché (ed è una cosa che giova ripetere) chi era poeta poté, seguendo o l’una o l’altra strada, dare delle prove accidentali del suo valore. Così doveva essere del Voltaire; il quale nel suo poema introdusse il maraviglioso, o piuttosto due specie di maraviglioso, il cristiano e l’allegorico. Ma non credo d’esprimere una mia opinione particolare dicendo che, quantunque abbelliti da immagini e vive e appropriate, e da sentenze e gravi e pellegrine (quando sono giuste), e il tutto in versi quasi sempre belli, e non di rado singolarmente belli, l’effetto che fanno, come parte dell’azione, è languido e stentato, e quasi di gente estranea e indifferente, che bisogna chiamar di novo ogni volta che si vuol farcela entrare.
Il Voltaire che, come poeta, si servì del maraviglioso, opinò, come critico, che si potesse farne di meno, e, da quel che mi pare, non senza contradirsi. Cosa non punto strana, perché dove, in vece d’una massima certa, ci sono due opinioni probabili, può facilmente accadere che all’uomo medesimo piaccia di più ora l’una, ora l’altra. «Virgilio e Omero, dic’egli, fecero benissimo a mettere in scena le divinità. Lucano fece ugualmente bene a farne di meno. Giove, Giunone, Marte, Venere, erano ornamenti necessari all’azione d’Enea e d’Agamennone. Poco si sapeva di quegli eroi favolosi... Ma Cesare, Pompeo, Catone, Labieno, vivevano in tempi ben diversi da quelli d’Enea.»
E Enrico IV, Mayenne, Potier e Mornay?
«Le guerre civili di Roma», aggiunge, «erano una cosa troppo seria per tali giochi d’immaginazione.»
E le guerre civili di Francia?
Si dirà egli, che queste parole, applicate dal Voltaire alle divinità mitologiche, non possono convenire al soprannaturale cristiano? Rispondo che al soprannaturale non rivelato, ma inventato da un poeta, convengono né più né meno.
Più notabile, per un altro riguardo, è ciò che dice poco dopo:
«Quelli che prendono i cominciamenti d’un’arte per i princìpi dell’arte medesima, sono persuasi che un poema non potrebbe stare senza divinità, perché l’Iliade n’è piena. Ma queste divinità sono così poco essenziali al poema, che il passo più bello che si trovi nella Farsalia, e forse in qualunque poema, è il discorso col quale Catone, quello stoico odiatore delle favole, rifiuta sdegnosamente di visitare il tempio di Giove Ammone2.»
Ognuno vede qual sia la forza di questo ragionamento: si potevano dire delle bellissime cose in disprezzo del politeismo, dunque il poema può stare senza il maraviglioso. Ma ciò che volevamo notare particolar-