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sizione parrebbe scandalosa, e che mi si direbbe, non senza sdegno, che è un levare il rispetto a un grand’uomo il prender sul serio una sua aberrazione; che è quasi un farsi complice delle critiche sciocche e insolenti, alle quali quell’uomo, tormentato, portato fuori di sè, sacrificò l’ispirazioni del suo ingegno, lascio la mia osservazione nella penna, e seguo tacitamente a dire tra me:

Non furono sicuramente le critiche altrui, che mossero il Tasso a dare un maggior posto alla storia nel suo secondo poema; poichè la critica che gli facevano su questo punto (spropositata davvero, ma qui non importa) era in vece: «Che la Gerusalemme Liberata è mera istoria senza favola1;» e Bastiano de’ Rossi, suo principale avversario in quella guerra, degna purtroppo dell’Italia di quel tempo, gli oppone che: «Il poeta non è poeta senza l’invenzione; però scrivendo istoria, o sopra storia scritta da altri, perde l’essere interamente2.» Dunque la cosa è nata da tutt’altra cagione. E posso ingannarmi, ma deve esser nata da questo, che, avendo il Tasso presa quell’infelicissima determinazione di rifare il suo poema; e dando una ripassata alle cronache della crociata, per vedere a buon conto se qualcosa ci fosse da ritoccare anche riguardo alla storia, la storia abbia prodotto il suo effetto naturale, che è di parer più a proposito dell’invenzione, quando la materia è sua, e non dell’invenzione. E non gli si poteva dire: vattene in pace, chè la tua parte l’hai avuta; perchè la parte che la storia deve avere in un Poema, o piuttosto la parte che si possa dare all’invenzione in un avvenimento storico, non era stata determinata al tempo del Tasso, come non lo fu dopo. Ne’ Discorsi dell’arte poetica, scritti un pezzo prima, il Tasso aveva detto: «Lasci il nostro epico il fine e l’origine della impresa, e alcune cose più illustri nella loro verità, o nulla o poco alterata, muti poi, se così gli pare, i mezzi e le circostanze, confonda i tempi e gli ordini dell’altre cose, e si dimostri in somma più artificioso poeta, che verace storico3.» E che più tardi gli sia parso che «alcuna parte dell’azione più illustre era tralasciata nella prima4» favola della Gerusalemme, formata con una tal norma, non trovo che ci sia punto da maravigliarsene. Chi mai, prendendo per misura d’un giudizio oggetti così indeterminati e nebbiosi, come: alcune cose, e o poco o nulla, e motivi così arbitrari e arrendevoli, come: se così gli pare, e l’esser più poeta che storico; chi mai, dico, potrebbe esser sicuro di portar due volte lo stesso giudizio su una stessa cosa? Perciò, quando il Tasso, diventato (per sua disgrazia) autore della Conquistata, dice: «Io, in quel che appartiene alla mistione del vero col falso, estimo che il vero debba aver la maggior parte, sì perchè vero dee esser il principio, il quale è il mezzo del tutto; sì per la verità del fine, al quale tutte le cose sono dirizzate5,» non trovo certamente in queste parole una norma più applicabile della prima, giacchè il dire: la maggior parte non dà un’idea più distinta che il dire: alcune cose; ma ci vedo l’imbroglio dell’assunto, e non l’aberrazione d’un uomo.

  1. Discorso d’Orazio Lombardelli intorno ai contrasti che si fanno sopra la Gerusalemme Liberata; Opere di Torquato Tasso 1724, t. VI, pag. 224.
  2. Degli accademici della Crusca, difesa dell’Orlando Furioso contra ’l dialogo dell’epica poesia di C. Pellegrino; ibid. t. V, pag. 406.
  3. Disc. II.
  4. Giudizio sovra la Gerusalemme di T. Tasso, da lui medesimo riformata; lib. I, Ediz. cit., t. IV, pag. 132.
  5. Ibid.