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tesse citare, né che dovesse temere. E senza dubbio, anche al tempo del Tasso, c’era molto ma molto meno bisogno di tali aiuti, di quello che ce ne fosse al tempo del Voltaire. Il desiderio della verità positiva non poteva essere severo e fastidioso co’ Poeti, quando era di così facile contentatura con gli storici, quando la poesia conservava ancora tanta parte di dominio nella storia medesima. Infatti l’origini, in tanta parte poetiche, delle nazioni e degli stati erano ancora raccontate con sicurezza, e accettate con docilità. E anche per i fatti meno remoti, il trovarli verosimili bastava per lo più e agli scrittori e ai lettori di storie, per non andar a cercare se fossero poi anche sufficientemente attestati. E, malgrado alcune proteste già antiche, non parevano fuor di luogo le parlate messe dagli storici in bocca ai loro personaggi: ché, in quel momento, li facevano proprio diventare loro personaggi alla maniera de’ poeti.
Credo che tutto questo non abbia bisogno di prove; ma mi si permetta di citarne un esempio notabile, d’un tempo alquanto anteriore, ma non tanto che, per questa parte principalmente, si possa considerare come un tempo diverso. Il Machiavelli, osservatore così vigilante e così profondo (quando però non prende per regola suprema de’ suoi giudizi e de’ suoi consigli l’utilità: regola iniqua e assurda, che è tutt’uno; e con la quale, per conseguenza, non c’è ingegno che possa andar al fondo di nulla), il Machiavelli, ne’ suoi Discorsi sopra T. Livio, tra tante e così varie osservazioni, non ne fa, se non m’inganno, una sola di critica storica. Eppure, volendo dedurre i suoi ammaestramenti da’ fatti, pare che la verità de’ fatti dovess’essere per lui una condizione preliminare, non solo importante, ma indispensabile. Di più, prende per testo, ogni volta che gli venga in taglio, de’ luoghi delle parlate di Livio, né più né meno che i luoghi dove Livio racconta. Anzi arriva a prenderne per testo uno dove lo storico, più poeta che mai, descrive de’ movimenti interni dell’animo. Nel celebre capitolo sulle congiure, parlando de’ «pericoli che si corrono in su la esecuzione», dice: «E che gli uomini invasino e si confondino, non lo può meglio dimostrare T. Livio quando descrive d’Alessameno Etolo (quando ei volle ammazzare Nabide Spartano) che venuto il tempo della esecuzione, scoperto ch’egli ebbe a’ suoi quello che s’aveva a fare, dice T. Livio queste parole: Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione rei.»
Nessuno s’immagina sicuramente che noi vogliamo dire che il Machiavelli prendesse per fatti positivi tutto ciò che trovava nel suo autore. E, del resto, dicendo: non lo può meglio dimostrare T. Livio, usa il linguaggio che avrebbe potuto usare ugualmente, se avesse citato un apologo; come, citando le parlate, ora dice, per esempio: «Annio loro pretore disse queste parole», ovvero: «io voglio addurre le parole di Papirio Cursore»; ora: «il nostro istorico gli mette in bocca queste parole», ovvero: «si può notare per le parole che Livio gli fa dire». Ma è appunto questa indifferenza per la realtà positiva de’ fatti storici, questo correre con la mente a ciò che possano aver di notabile come meramente verosimili, e fermarsi lì; è questo che abbiamo voluto notare in un uomo tale, come un saggio insigne d’una disposizione comune. Disposizione che, non essendo ragionevole, non poteva esser perpetua, e che, al tempo del Voltaire, era tanto diminuita, da costringerlo a mettere, per meno male, tutti que’ puntelli storici al suo edifizio poetico.
Volevo aggiungere che, a un certo tempo, il Tasso medesimo, diede segno, in un’altra maniera, di sentire più di prima quelle incomode esigenze della storia, poiché nella Conquistata ne fece entrare molto più di quella che ne avesse messa nella Liberata. Ma, riflettendo che la propo-