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difficoltà nasca dalla lunghezza materiale del componimento, non vedo bene il perché questo deva essere così unico per la difficoltà, anche tra i segnalati. «Non c’è quasi una novelletta, in cui gli avvenimenti non siano meglio distribuiti, preparati con più artifizio, congegnati con un’industria mille volte maggiore, che ne’ poemi d’Omero», disse il Voltaire.1 E l’espressione può parere esagerata; ma credo che la sentenza parrà vera in fondo, soprattutto se si applichi ai romanzi de’ quali è venuta una così gran piena dopo che furono scritte quelle parole, e specialmente a que’ pochi che sono rimasti celebri. Ora, quel congegno degli avvenimenti, quel subordinarne molti al principale, legandoli insieme tra di loro, è appunto ciò che nel poema epico si riguarda come la cosa più difficile e quasi miracolosa. Il rimanente dipende da altre facoltà, le quali, a chi mancano, bona notte; chi le ha avute in dono dal cielo, non si vede il perché non le possa adoprar così felicemente nel poema epico come in altri componimenti. Inclinerei dunque a credere che quest’opinione d’una difficoltà specialissima della cosa nasca da un sentimento che si ha in confuso del difetto intrinseco della cosa medesima. Si chiama il poema epico un problema di soluzione inescogitabilmente difficile, perché si sente che è la quadratura del circolo. Si dice: come farà la natura a produrre un uomo capace di rappresentare epicamente un grand’avvenimento? Quello che si pensa in nube è: come farà un uomo a rappresentar bene un grand’avvenimento, travisandolo?
Il Voltaire citato dianzi farebbe rammentare, se ce ne fosse bisogno, al lettore e a me una trasgressione fortunata di quel divieto, l’Enriade; la quale e ottenne, al suo apparire, un applauso quasi universale, e conserva ancora un’universale celebrità. Ma questo poema è appunto ciò che si potrebbe desiderar di meglio per conoscere quanto la difficoltà fosse cresciuta a quel tempo, e a quali espedienti abbia dovuto ricorrere il poeta, per darsi a intendere di superarla. Apro dunque l’Enriade, e trovo, prima dell’Enriade, un’Idea dell’Enriade, e una Storia compendiosa degli avvenimenti sui quali è fondata la favola del poema; e dopo il poema, una lunga filza di note storiche, e per di più un Saggio sulle guerre civili di Francia. Il Tasso biasima in qualche poeta del suo tempo qualcosa di molto meno, e per un’ottima ragione. «Perfettissima d’ogni parte è quella favola,» dic’egli, parlando dell’Iliade, «e nel seno della sua testura porta intiera e perfetta cognizione di sé stessa, né conviene accattare estrinseche cose, che la sua intelligenza ci facilitino. Il qual difetto si può per avventura riprendere in alcun moderno, ov’è necessario ricorrere a quella prosa, che dinanzi per sua dichiarazione porta scritta; perocché questa tal chiarezza, che si ha dagli argomenti, e da altri sì fatti aiuti non è né artificiosa, né propria del poeta, ma estrinseca e mendicata.»2
Egregiamente; ma il punto sta nel non aver bisogno di simili aiuti. Certo, non aveva bisogno Omero d’accattare né schiarimenti né attestati dalla storia, poiché la faceva lui. La Memoria era il suo mallevadore; e quella, bastava invocarla sul principio e, per un di più, ogni tanto. Non n’aveva neppure bisogno Virgilio, quantunque il caso fosse molto diverso. Le cose che raccontava non gli potevano, è vero, esser credute; non faceva lui la storia; ma non c’era, di quelle cose, una storia ch’egli po-