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non esser politeisti, «quel maraviglioso (se pur merita tal nome) che portan seco i Giovi e gli Apolli, e gli altri numi de’ Gentili, è non solo lontano da ogni verisimile, ma freddo ed insipido e di nessuna virtù1,» non bisogna credere che per i politeisti dovesse essere una fonte inesausta di curiosità e di piacere. E d’uno di loro quel lamento:
Expectes eadem a summo minimoque poeta 2.
Dove potevano dunque i poeti latini trovare oramai degli argomenti per l’epopea, quando la storia non poteva dirsela con la mitologia, e la mitologia senza la storia non era più altro che una novella vecchia? La pianta era morta, dopo aver portato il suo fiore immortale.
Venendo alla letteratura moderna, troviamo subito un altro poema immortale, ma di tutt’altro genere, e per la materia e per la forma. Certo, non si può dire lo stesso affatto del Furioso, il soggetto del quale è di questo mondo, e di tempi storici. Ma, come ognuno sa, un concetto favoloso di que’ tempi era diffuso e accettato da un pezzo, e diventato materia usuale di poemi. Quindi l’Ariosto non ebbe ad affrontar la storia: non faceva altro che continuare una favola. La quale non poteva regnare ancora per molto tempo, ma regnava ancora abbastanza per potere aver da lui il suo primo e ultimo capolavoro3.
Il primo poema che comparve con intento e in forma d’epopea classica insieme e storica, fu l’Italia Liberata del Trissino.
E in verità, non si saprebbe intendere come mai un tal lavoro abbia potuto acquistar fama presso i contemporanei, e conservarla presso i posteri, se non si conoscesse la cagione speciale d’un tal fenomeno. Per quanto, al tempo del Trissino, la poesia italiana avesse presa, e già percorsa a gran
- ↑ Tasso, Dell'Arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, Disc. I.
- ↑ Juvenal. Sant. I.
- ↑ Perché mai, de’ tanti poemi prodotti da quest’epopea nel suo stato primitivo, «non ce n’è uno che sia rimasto come un gran monumento della letteratura a cui appartennero, e che figuri in essa come l’Iliade e l’Odissea nella letteratura della Grecia, e il Ramayana e il Mahabharat in quella dell’India?» La domanda è di Fauriel, il quale indica anche con molta acutezza la cagione principale di quella differenza. «L’Iliade e il Ramayana, dice, non sono solamente poemi popolari: sono o almeno furono gran monumenti nazionali, strettamente storici, in quanto non c’era una storia a cui competesse il posto occupato da essi: furono monumenti consacrati dall’autorità politica e religiosa... In vece, l’epopee romanzesche, per quanto siano potute esser popolari in certi tempi e in certi luoghi, non furono mai propriamente nazionali, e non ricevettero mai la sanzione, nè della religione, nè della scienza, nè dell’arte.» (Op. cit., tom. III, p. 382). Infatti, meno qualche bellezza accidentale, che Fauriel attesta trovarsi in qualcheduno di que’ poemi, non potevano per la loro origine, esser tali da meritare nemmeno la sanzione dell’arte. Composti per una sola classe di persone, e per la classe più ignorante (poiché c’erano storie autorevoli di que’ fatti, e gente che le leggeva), e composti per ottener fede, la loro materia era necessariamente proporzionata, non allo stato generale delle menti, ma a uno stato particolare, e al più basso. Certo, l’errore, malgrado la speciosità che può accattare da ornamenti esteriori, è sempre, in fondo, una cosa miserabile: ché non vorrei a nessun patto chiamare assolutamente belle le fandonie dell’Iliade. Ma non mi pare che potesse esser capace nemmeno d’invenzioni molto speciose un errore che, opponendosi a delle virtù positive e conosciute o conoscibili, aveva bisogno di trovar nelle menti un’ignoranza speciale, per esser creduto. Non mi pare che i giullari che si rivolgevano a quella, con un tal fine, potessero essere ingegni capaci di splendidi ritrovati. Era l’epopea storica, con la trista giunta del disegno d’ingannare. E non mi par nemmeno che i suoi prodotti possano essere oggetto d’una viva e persistente curiosità. Il Vico, e con un’alta ragione, poté chiamare Omero «il primo storico il quale ci sia giunto di tutta la gentilità» (Del vero Omero); perché da ciò che popoli interi potevano credere, si può arguire ciò che fossero. Da’ poemi romanzeschi del medio evo, c’è da imparare solamente cosa si potesse dare a intendere alla parte ignorante d’un popolo.