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nel soggetto. E si può egli dire che sia la stessa cosa il mettere in opera gli elementi d’un soggetto, e l’introdurcene degli estranei?

I critici che biasimarono Lucano d’aver voluto re, per ciò che riguarda gli avvenimenti, una storia in versi piuttosto che un poema (l’altre critiche a cui andò e va soggetta la Farsalia, sono estranee al nostro argomento), non esaminarono, da quello che mi pare, se, volendo pur comporre in quel tempo un poema epico, c’era da far qualcosa di meglio. Introdurre le divinità mitologiche in un soggetto di tempi storici, e, per poterlo fare con maggior libertà, prendere il soggetto da tempi più remoti? O prendere il soggetto dai tempi favolosi? L’una e l’altra cosa fu fatta con esito poco felice, e non da uomini così sforniti di doti poetiche, che se ne possa dar loro la colpa principale. E sarebbero, certo, più lodati, anzi credo, ammirati, se l’opere di Virgilio fossero perite; perché ammaestrati da lui di ciò che poteva la lingua latina, e imitandolo in quella lingua medesima, poterono, in quanto allo stile, esser forse più continuamente e più arditamente poeti, di quello che le lingue moderne permettano anche ai più felici ingegni.

Silio Italico fece, come Virgilio, intervenire gli dei nel suo poema. Ma il soggetto era la seconda guerra cartaginese; e Annibale e Scipione non avevano parenti nell’Olimpo, come Enea e Turno. Non erano eroi misti con gli dei1, ma generali e uomini di stato di due repubbliche. E si pensi che effetto potesse fare, anche a lettori gentili, ma che avevano Livio e Polibio, il dio Marte che, entrato in persona nella battaglia del Ticino, copre col suo scudo il giovine Scipione; e gli parla dal suo cocchio in aria; e Giunone che, per sottrarre Annibale vivo dal campo di Zama, gli manda incontro una fantasima in figura di Scipione, la quale fuggendogli poi davanti, lo tira fuori della battaglia2. Perché Virgilio aveva potuto, con convenienza poetica, far durare l’odio di quella dea contro i profughi da Troia, contro Enea, cugino di Paride, credette Silio Italico di poter resuscitare quell’odio contro i Romani del sesto secolo. E non badò che la pace era fatta da un pezzo; non intese bene quel luogo dell’Eneide, dove Giove le dice: Quae jam finis erit, conjux?... Desine jam tandem... Ulterius tentare velo. E barattata qualche altra parola, Annuit his Juno, et mentem laetata retorsit3. Che voleva dire: la novella è finita; vengono tempi e fatti, ne’ quali gli dei non si potranno far entrare, che per forza.

Del resto, anche Silio Italico fu tacciato d’essere stato troppo ligio alla storia. Quel solito giudizio, nato dal non riflettere che, quando si cambia la materia, non è così facile conservar la forma; dal supporre che della storia si possa far lo stesso che della favola.

La Tebaide di Stazio e l’Argonautica di Valerio Flacco erano soggetti presi, come l’Eneide, da’ secoli eroici; solo ci mancava quel magnifico e perpetuo legame con l’origine, col progresso, con le tradizioni, coi destini d’una società viva e vera, e d’una società come Roma. Che è poco? I racconti fondati sulla mitologia, dopo esser piaciuti come cose credute vere, poterono piacere come una forma speciale di verosimile; ma era un pezzo che la cosa durava. E perché, per noi che abbiamo la sorte di

  1.                          . . . . . . . . divisque videbit
                             Permixtos heroas.

    Virg., Ecl. IV.

  2. Ibid. XVII, 522 et seq.
  3. XII, 793 et seq.