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Sed me Parnassi deserta per ardua dulcis
Raptat amor juvat ire jugis qua nulla priorum
Castaliam molli devertitur orbita clivo.1
Che vuol dire: ma io sento d’esser Virgilio. E stavo per dire che, con quello stile, un poema sarebbe un oggetto perpetuo d’ammirazione, qualunque ne fosse stato l’argomento, qualunque l’invenzione delle parti. Ma m’avvedo a tempo, che la supposizione non sarebbe ragionevole. Quello stesso giudizio squisito e sdegnoso, che guidava Virgilio nella scelta dell’espressioni, non gli avrebbe permesso d’attaccarsi a un argomento che non avesse le migliori condizioni, né a invenzioni che non avessero un pregio intrinseco; sia quelle che si fossero presentate alla sua mente, sia le altrui, che trovasse capaci e degne d’esser fatte sue.
Ma ecco che, subito dopo Virgilio, comparisce Lucano, che si può dire il fondatore dell’epopea storica; giacché non si sa, credo, che alcuno prima di lui prendesse per soggetto d’un lungo poema un avvenimento di tempi storici, formato di molti e vari fatti, e avente quell’unità d’azione, che resulta dall’esser questi e legati tra di loro, e conducenti alla conclusione di quello. E non ho detto semplicemente: un avvenimento storico; ma di tempi storici; perché lì è la differenza essenziale tra la Farsalia e l’epopee anteriori. L’importanza della quale non fu, mi pare, abbastanza riconosciuta dai critici; i quali notando in quel poema altre differenze reali, ma secondarie, non s’avvidero ch’erano dipendenti da quella prima e capitale innovazione. Perché la guerra di Troia può essere chiamata, più o meno, un fatto storico, come le guerre civili di Roma; perché un Enea venuto in Italia dopo quella guerra può essere, più o meno, chiamato un personaggio storico come Cesare; poté anche parere che tra i soggetti dell’Iliade e dell’Eneide, e il soggetto della Farsalia non ci fosse una differenza sostanziale, e che le innovazioni di Lucano siano venute da un suo genio particolare, da un capriccio. Ma chi appena ci badi, vedrà, se non m’inganno, ch’erano conseguenze, non necessarie ma naturali dell’aver preso il soggetto del poema da tempi storici, cioè da tempi, de’ quali il lettore aveva, o poteva acquistare quando volesse, un concetto indipendente e diverso da quello che all’invenzione poetica fosse convenuto di formarci sopra. Se ci fu capriccio, fu quello.
Di queste innovazioni accennerò le due che furono principalmente notate. Una, l’avere il poeta seguita servilmente la storia, in vece di trasformarla liberamente. Ma fu perché la storia era nel soggetto; e il poeta doveva scegliere tra il seguirla, o il contradirla, affrontando così e urtando un concetto già piantato nelle menti, e con bone radici2.
L’altra, l’avere esclusi gli dei dal poema. Ma fu perché non li trovava
- ↑ Georg. I. III, v. 291 et seq.
- ↑ Si dirà qui forse che anche l’Eneide andò soggetta a delle obiezioni storiche: e che, per esempio, la favola di Didone era riconosciuta per falsa (fabula, lascivientis Didonis, quam falsam novit universitas. Macrob., Saturnal., V. 17), come era riconosciuto l’anacronismo su quale il poeta l’aveva fondata. Non nego l’inconveniente, ma osservo che era leggiero e soprattutto non necessario. Era un concetto semplice, compendioso, del reale, un concetto quasi meramente negativo, che insorgeva contro un vasto e mirabile complesso di verosimili. S’immagini un poco un anacronismo simile (se c’è anacronismo, cosa impugnata da dotti cronologisti) introdotto in un soggetto di tempi storici: che continua e minuta opposizione tra la favola e la storia! E ho detto che l’inconveniente non era necessario nell’epopea favolosa: non perché nella storica siano necessarie alterazioni così gravi della storia; ma perché in quella non è necessario che ce ne sia nessuna. Dei resto come s’è già detto, ed è un argomento che fa per noi, l’epopea di Virgilio non poteva aver tutti i vantaggi dell’omerica.