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il linguaggio comune non gli somministra una formola, ne trova una con cui afferrarlo, e renderlo presente, in una forma propria e distinta, alla sua mente (ché agli altri può aver pensato prima, e pensarci dopo, ma non ci pensa, certo, in quel momento). E questo non lo fa, o la fa ben di rado, e ancor più di rado felicemente, con l’inventar vocaboli novi, come fanno, e devono fare, i trovatori di verità scientifiche; ma con accozzi inusitati di vocaboli usitati, appunto perché il proprio dell’arte sua è, non tanto d’insegnar cose nove, quanto di rivelare aspetti novi di cose note; e il mezzo più naturale a ciò è di mettere in relazioni nove i vocaboli significanti cose note. Queste formole non passano, se non per qualche rara opportunità, nel linguaggio comune, perché, come s’è detto dianzi, il linguaggio comune non ha per lo più bisogno d’esprimere tali concetti; e la virtù propria della parola poetica è d’offrire intuiti al pensiero, piuttosto che istrumenti al discorso. Ma quando sono, come devono essere, concetti veri insieme e pellegrini, riescono doppiamente gradevoli. E, non lascerò d’aggiungere, estendono effettivamente la cognizione; per quanto ci siano di quelli che credono filosofia il riguardare come oggetto esclusivo della cognizione, alcune categorie di veri1.
Avere accennato ciò che la poesia vuole, è avere accennato ciò che Virgilio fece, in un grado eccellente. Chi più di lui trovò in una contemplazione animata e serena, nell’intuito ora rapido, ora paziente (appunto perché vivo) delle cose da descriversi, nel sentimento effettivo degli affetti ideati, il bisogno e il mezzo di nove e vere e pellegrine espressioni2? E intendo un vero bisogno, giacché chi più alieno di lui dal posporre la locuzione usitata, quando fosse bastante al suo concetto? Ma era frequente il caso che non bastasse, e quindi così frequenti, ma non mai troppi, ne’ suoi versi, quegli accozzi di parole così inaspettati e non mai violenti; direi la callida junctura d’Orazio3; ma, per quanto l’espressione sia felice, l’arte di Virgilio par che richieda una qualificazione più gentile e più elevata. E credo che non si possa trovare a ciò parole più adatte, di quelle sue:
Nec sum animi dubius verbis ea vincere magnum
Quam sit, et angustis hunc addere rebus honorem,
quantunque non riguardino che l’applicazione di quell’arte a una specie d’oggetti. E aggiunge:
- ↑ Nessun lettore, spero, confonderà lo stile poetico, proprio d'ogni scrittore, del quale s'è pariate qui, con quell'insulsa cosa che si chiamava così impropriamente (improprietà, del resto, non particolare a questo caso) lingua poetica: come se in una lingua ci potessero essere altre lingue. E si faceva consistere in un certo numero di locuzioni da mettersi esclusivamente ne' versi, come regni bui, cigni canori, liquidi cristalli, veglio edace, stagion de' fiori, e simili. Locuzioni la più parte mitologiche, e più o meno felici, che, trovate una volta da uno, gli altri non avevano da far altro che adoprarle; dimanieraché erano, nello stesso tempo, estranee al linguaggio comune, e triviali.
- ↑ Donato racconta, nella Vita di Virgilio, che questo, interrogato da Mecenate, qual cosa non generi sazietà, rispose che tutte le cose, o per la quantità, o per la somiglianza tra di loro, possono riuscire stucchevoli, meno l'intendere: praeter intelligere. È sentenza da filosofo, ma è anche da un poeta come Virgilio; e certo non erano i grammatici, che potessero affibbiarghela
- ↑
Dixeris egregie, notum si callida verbum
Reddiderit iunctura novum.Horat., De arte poet., v. 47.