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liberazioni, anche quando queste erano diventate legali. C’era, tanto nell’epopea greca, quanto nella latina, una donna, cagione, in quella, d’un grande avvenimento, in questa, d’una gran mutazione. Ma d’Elena, moglie d’uno di que’ tanti re, si potevano senza inconveniente accrescere e variar le vicende, e quand’anche a Sparta fosse convenuto di tramandarle in una forma unica e consacrata, qual mezzo avrebbe avuto di far chetare il cicalìo poetico del rimanente della Grecia? Lucrezia, matrona, moglie d’uno de’ patrizi romani, tanti anch’essi, ma formanti una perpetua unità dominatrice, era la vittima per cui rimaneva santificato il passaggio dall’aristocrazia col re alla più pretta aristocrazia coi consoli: e non era una memoria da abbandonarsi all’arbitrio fecondo delle fantasie.
Quando poi, e fu molto tardi, quella storia poté ritornare in mano de’ poeti, ma di tutt’altri poeti, cioè de’ poeti letterari, aveva già presa una forma così stabile e distinta, che difficilmente sarebbe potuto venire in mente a nessuno, di farne qualcosa di suo. Era ancora troppo autorevole perché potesse parer conveniente di staccarne un pezzo qualunque, per ingrossarlo con delle favole nove, e trovate tutte in una volta, e da un uomo solo. Questo spiega, se non m’inganno, il perché Ennio, volendo pure farla ridiventar poesia, non trovò da far altro che metterla in versi tutta quanta. E avendo presa questa strada, non fa specie che tirasse avanti, e continuasse quella storia fino quasi ai suoi tempi, come pare da’ frammenti che ci rimangono de’ suoi annali. E basterebbe anzi questo solo titolo per indicare che il soggetto dell’opera non era un’azione una e compita, avente principio, mezzo e fine, che, come dice Aristotele, e come la intendono tutti, è un costitutivo essenziale del poema epico1. Non può quindi Ennio esser riguardato né come un continuatore dell’epopea omerica, e neppure come il fondatore dell’epopea storica; la quale ha comune con quella l’assunto di rappresentare un’azione una e compita, quantunque ne differisca essenzialmente nel prendere il suo soggetto da una materia così diversa, come è la storia dalla favola.
Che, prima d’arrivare a una così forte e così radicale alterazione, l’epopea letteraria e artifiziale, nata (e come sarebbe potuta nascere altrimenti?) dall’imitazione della primitiva e spontanea, cercasse di seguirla, e tentasse d’emularla nel campo della favola; che percorresse uno stadio di mezzo, dirò così, tra l’Iliade e la Farsalia, era una cosa molto naturale. Ma perché un tal tentativo, con tutti gli svantaggi dell’imitare artifizialmente ciò ch’era nato spontaneamente, ciò che ha avuta la sua ragion d’essere da uno stato di cose e di menti che non era più, potesse produrre un’opera originale in un’altra maniera, un’opera, non simile certamente al suo archetipo, ma non inferiore a nulla, ci volle un soggetto unico, come l’Eneide, e un uomo unico per trattarlo, come Virgilio.
In quel soggetto e mitologico e, nello stesso tempo, legato con la fondazione di Roma, trovava il poeta e la feconda libertà della favola, e il vivo interesse della storia. Da una parte, in quella vasta e leggiera nebbia de’ secoli eroici, poteva suscitare apparizioni fantastiche, speciosa mira-
- ↑ De narrativa autem, ei in metro imitatrice, quod oportet fabulas, quemadmodum in tragoediis, constituere dramaticas, ei circa unam actionem totam et perfectam, habentem principium et medium et finem. Poet. cap. 22.
Per comodo di quelli che non potrebbero intendere il testo, cito e citerò altrove quando occorra, la traduzione del Vettori, riconosciuta per letteralissima. Non ignara mali, miseris succurrere disco.