Del mio tristo destin: questo pensiero
M’avvelena il morir. Deh ch’io non veda
Quanto per me sei sventurata!
O sposo
De’ miei bei dì, tu che li festi; il core
Vedimi; io moio di dolor; ma pure
Bramar non posso di non esser tua.
Sposa, il sapea quel che in te perdo; ed ora
Non far che troppo il senta,
Oh gli omicidi!
No, mia dolce Matilde; il tristo grido
Della vendetta e del rancor non sorga
Dall’innocente animo tuo, non turbi
Quest’istanti: son sacri. Il torto è grande;
Ma perdona, e vedrai che in mezzo ai mali
Un’alta gioia anco riman. La morte!
Il più crudel nemico altro non puote
Che accelerarla. Oh! gli uomini non hanno
Inventata la morte: ella saria
Rabbiosa, insopportabile: dal cielo
Essa ci viene; e l’accompagna il cielo
Con tal conforto, che nè dar nè torre
Gli uomini ponno. O sposa, o figlia, udite
Le mie parole estreme: amare, il vedo,
Vi piombano sul cor; ma un giorno avrete
Qualche dolcezza a rammentarle insieme.
Tu, sposa, vivi; il dolor vinci, e vivi;
Questa infelice orba non sia del tutto.
Fuggi da questa terra, e tosto ai tuoi
La riconduci: ella è lor sangue; ad essi
Fosti sì cara un dì! Consorte poi
Del lor nemico, il fosti men: le crude
Ire di Stato avversi fean gran tempo
De’ Carmagnola e de’ Visconti il nome.
Ma tu riedi infelice; il tristo oggetto
Dell’odio è tolto: è un gran pacier la morte.
E tu, tenero fior, tu che tra l’armi
A rallegrare il mio pensier venivi,
Tu chini il capo: oh! la tempesta rugge
Sopra di te! tu tremi, ed al singulto
Più non regge il tuo sen; sento sul petto
Le tuo infocate lagrime cadermi;