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atto quinto. 277

Due derelitte: ei v’era amico: andiamo,
Siateci scoria ai giudici. Vien meco,
Poverella innocente: oh! vieni: in terra
C’è ancor pietà: son sposi e padri anch’essi.
Mentre scrivean l’empia sentenza, in mente
Non venne lor ch’egli era sposo e padre.
Quando vedran di che dolor cagione
una parola di lor bocca uscita,
Ne fremeranno anch’essi; ah! non potranno
Non rivocarla: del dolor l’aspetto
È terribile all’uom. Forse scusarsi
Quel prode non degnò, rammentar loro
Quanto per essi oprò; noi rammentarlo
Sapremo. Ah! certo ei non pregò; ma noi,
Noi pregheremo.

(in atto di partire)



gonzaga.


                              Oh ciel, perchè non posso
Lasciarvi almen questa speranza! A preghi
Loco non c’è: qui i giudici son sordi,
Implacabili, ignoti; il fulmin piomba,
La man che il vibra è nelle nubi ascosa.
Solo un conforto v’è concesso, il tristo
Conforto di vederlo, ed io vel reco.
Ma il tempo incalza. Fate cor; tremenda
È la prova; ma il Dio degl’infelici
Sarà con voi.

matilde.


                              Non c’è speranza?

antonietta.


                                                                      Oh figlia!

(partono).



SCENA IV.

Prigione.

il conte.


A quest’ora il sapranno. Oh perchè almeno
Lunge da lor non moio! Orrendo, è vero,
Lor giungeria l’annunzio; ma varcata
L’ora solenne del dolor saria;
E adesso innanzi ella ci sta: bisogna
Gustarla a sorsi, e insieme. O campi aperti!
O sol diffuso! o strepito dell’armi!