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atto quinto. 273


il conte.


Anche un ribelle, sì: come v’aggrada
Ormai potete favellar.

il doge.


                                        Sia tratto
Al Collegio segreto.

il conte.


                                        Un breve istante
Udite in pria. Voi risolveste, il vedo,
La morte mia; ma risolvete insieme
La vostra infamia eterna. Oltre l’antico
Confin l’insegna del Leon si spiega
Su quelle torri, ove all’Europa è noto
Ch’io la piantai. Qui tacerassi, è vero;
Ma intorno a voi, dove non giunge il muto
Terror del vostro impero, ivi librato,
Ivi in note indelebili fia scritto
Il benefizio e la mercè. Pensate
Ai vostri annali, all’avvenir. Tra poco
Il dì verrà che d’un guerriero ancora
Uopo vi sia: chi vorrà farsi il vostro?
Voi provocate la milizia. Or sono
In vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
Ch’io non ci nacqui, che tra gente io nacqui
Belligera, concorde: usa gran tempo
A guardar come sua questa qualunque
Gloria d’un suo concittadin, non fia
Che straniera all’oltraggio ella si tenga.
Qui c’è un inganno: a ciò vi trasse un qualche
Vostro nemico e mio: voi non credete
Ch’io vi tradissi. È tempo ancora.

il doge.


                                                            È tardi.
Quando il delitto meditaste, e baldo
Affrontavate chi dovea punirlo,
Tempo era allor d’antiveggenza.

il conte.


                                                            Indegno!
Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti
Ch’io chiedessi pietà, ch’io ti pregassi:
Tu forse osasti di pensar che un prode
Pe’ giorni suoi tremava. Ah! tu vedrai