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atto quarto. 259

Un periglio si scorge! Il genio ardito
Del condottier, la fama sua si teme,
De’ soldati l’ amor! Se render piena
Testimonianza al ver, colpa si stima;
Se a tal triste temenza oppor non lice
La lealtà del Conte; il senso almeno
Del nostro onor lo scacci. Abbiam di noi
Un più degno concetto; e non si creda
Che a tal Venezia giunta sia, che possa
Porla in periglio un uom. Lasciam codeste
Cure ai tiranni: ivi il valor si tema
Ove lo scettro è in una mano, e basta
A strapparlo un guerrier che dica: io sono
Più degno di tenerlo; e a’ suoi compagni
Il persuada. Ei che tentar potria?
Al Duca ritornar, dicesi, e seco
Le schiere trar nel tradimento. Al Duca?
All’uom che un’onta non perdona mai,
Nè un gran servigio, ritornar colui
Che gli compose e che gli scosse il trono?
Chi non potè restargli amico in tempo
Che pugnava per lui, ridivenirlo
Dopo averlo sconfitto! Avvicinarsi
A quella man che in questo asilo istesso
Comprò un pugnal per trapassargli il petto!
L’odio solo, o signor, creder lo puote.
Ah! qual sia la cagion che innanzi a questo
Temuto seggio fa trovarmi, un’alta
Grazia mi fia, se fare intender posso
Anco una volta il ver: qualche lusinga
Io nutro ancor che non fia forse invano.
Sì, l’odio cieco, l’odio sol potea
Far che fosse in Senato un tal sospetto
Proposto, inteso, tollerato. Ha molti
Fra noi nemici il Conte: or non ricerco
Perchè lo siano; il son. Quando nascoste
All’ombra della pubblica vendetta,
Le nimistà private io disvelai;
Quando chiedea che a provveder s’avesse
L’util soltanto dello Stato, e il giusto;
Allora uffizio io non facea d’amico,
Ma di fedel patrizio. Io già non scuso
Il mio parlar: quando proporre intesi
Che sotto il vel di consultarlo ei sia
Richiamato a Venezia, e gli si faccia
Onor più dell’usato, e tutto questo
Per tirarlo nel laccio... allor, nol nego...