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atto secondo. 229


malatesti.


Dimentichiamo or noi che numerati
Sono i momenti, e non ne resta alcuno
Per le gare private?



SCENA III.

TORELLO, e detti.

                  

sforza.


                                        Ebben, Torello,
Siete mutato di parer? Vedeste
L’animo ardente de’ soldati?

torello.


                                                  Il vidi;
Udii le grida del furor, le grida
Della fiducia e del coraggio; e il viso
Rivolsi altrove, onde nessun dei prodi
Vi leggesse il pensier che mal mio grado
Vi si pingeva: era il pensier che false
Son quelle gioie e brevi; era il pensiero
Del valor che si perde. Io cavalcai
Lungo tutta la fronte: io tesi il guardo,
Quanto lunge potei; rividi quelle
Macchie che sorgon qua e là dal suolo
Uliginoso che la via fiancheggia:
Là son gli agguati, il giurerei. Rividi
Quel doppio cinto di muniti carri,
Onde assiepato è del nemico il campo.
Se l’urto primo ei sostener non puote
Ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne
Preparato al secondo. Un novo è questo
Trovato di costui, per torre ai suoi
Il pensier primo che s’affaccia ai vinti,
Il pensier della fuga. Ad atterrarlo
Due colpi è d’uopo: ei con un sol ne atterra.
Perchè, non giova chiuder gli occhi al vero,
Non son più quelle guerre, in cui pe’ figli
E per le donne e per la patria terra
E per le leggi che la fan sì cara,
Combatteva il soldato; in cui pensava
Il capitano a statuirgli un posto,
Egli a morirvi. A mercenarie genti
Noi comandiamo, in cui più di leggeri
Trovi il furor e la costanza: e’ corrono
Volonterosi alla vittoria incontro;