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atto secondo. 227

Salvar, ma che perduto in una volta
Mai più rifar non si potria, non dèssi
Come un dado gittarlo ad occhi chiusi,
Avventurarlo in un sì piccol campo,
E in un campo mal noto, e quel che è peggio
Noto al nemico. Ei qui ci trasse: un torto
Argin divide le due schiere: a destra
E a sinistra paludi, in esse sparsi
I suoi drappelli; e noi fuor de’ nostri
Alloggiamenti non teniamo un palmo
Pur di terren. Credete ad un che l’arti
Conosce di costui, che ha combattuto
Al fianco suo; qui c’è un’insidia. Forse
La miglior via di guerreggiar quest’uomo
Saria tenerlo a bada, aspettar tempo,
Tanto che alcun dei duci ai quali è sopra
Prendesse a noia il suo superbo impero;
E il fascio ch’egli or nella mano ha stretto
Si rallentasse alfin. Pur, se a giornata
Venir si deve, non è questo il loco:
Usciam di qui, scegliamo un campo noi,
Tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,
Senza svantaggio almanco, si decida.

malatesti.


Due grandi schiere a fronte stanno; e grande
Fia la battaglia: d’una tale appunto
Abbisogna Filippo. A questi estremi
A poco a poco ei venne, e coi consigli
Che or proponete: a trarnelo, fia d’uopo
Appigliarci agli opposti. Il rischio vero
Sta nell’indugio; e nel mutare il campo
Rovina certa. Chi sapria dir quanto
Di numero e di cor scemato ei fia,
Pria che si ponga altrove? Ora egli è quale
Bramar lo puote un capitan; con esso
Tutto lice tentar.



SCENA II.

SFORZA, FORTEBRACCIO, e detti.

malatesti.


                              Ditelo, o Sforza,
E Fortebraccio; voi giungete in tempo:
Ditelo voi, come trovaste il campo?
Che possiamo sperarne?