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prefazione 199


III. Se poi queste regole si confrontano con l’esperienza, la gran prova che non sono necessarie alla illusione è, che il popolo si trova nello stato d’illusione voluta dall’arte, assistendo ogni giorno e in tutti i paesi a rappresentazioni dove esse non sono osservate; e il popolo in questa materia è il miglior testimonio. Poichè non conoscendo esso la distinzione dei diversi generi d’illusione, e non avendo alcuna idea teorica del verosimile dell’arte definito da alcuni critici pensatori; niuna idea astratta, niun precedente giudizio potrebbe fargli ricevere un’impressione di verosimiglianza da cose che non fossero naturalmente atte a produrla. Se i cangiamenti di scena distruggessero l’illusione, essa dovrebbe certamente essere più presto distrutta nel popolo che nelle persone colte, le quali piegano più facilmente la loro fantasia a secondar l’intenzioni dell’artista.

Se dai teatri popolari passiamo ad esaminare qual caso si sia fatto di queste regole ne’ teatri colti delle diverse nazioni, troviamo che nel greco non sono mai state stabilite per principio, e che s’è fatto contro ciò che esse prescrivono, ogni volta che l’argomento lo ha richiesto; che i poeti drammatici inglesi e spagnoli più celebri, quelli che sono riguardati come i poeti nazionali, non le hanno conosciute, o non se ne sono curati; che i tedeschi le rifiutano per riflessione. Nel teatro francese vennero introdotte a stento; e l’unità di luogo in ispecie incontrò ostacoli da parte de’ comici stessi, quando vi fu messa in pratica da Mairet con la sua Sofonisba, che si dice la prima tragedia regolare francese: quasi fosse un destino che la regolarità tragica deva sempre cominciare da una Sofonisba noiosa. In Italia queste regole sono state seguite come leggi, e senza discussione, che io sappia, e quindi probabilmente senza esame.

IV. Per colmo poi di bizzarria, è accaduto che quegli stessi che le hanno ricevute non le osservano esattamente in fatto. Perchè, senza parlare di qualche violazione dell’unità di luogo che si trova in alcune tragedie italiane e francesi, di quelle chiamate esclusivamente regolari, è noto che l’unità di tempo non è osservata nè pretesa nel suo stretto senso, cioè nell’uguaglianza del tempo fittizio attribuito all’azione col tempo reale che essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il teatro francese si citano tre o quattro tragedie che adempiscano questa condizione. Comme il est très-rare (dice un critico francese) de trouver des sujets qui puissen, étre resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et on l’a étendue jusqu’à vingt-quatre heures1. Con una tale transazione i trattatisti non hanno fatto altro che riconoscere l’irragionevolezza della regola, e si sono messi in un campo dove non possono sostenersi in nessuna maniera. Giacchè si potrà ben discutere con chi è di parere che l’azione non deva oltrepassare il tempo materiale della rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto, con qual ragione pretenderà che uno si tenga in un limite fissato così arbitrariamente? Cosa si può mai dire a un critico, il quale crede che si possano allargare le regole? Accade qui, come in molte altre cose, che sia più ragionevole chiedere il molto che il poco. Ci sono ragioni più che sufficienti per esimersi da queste regole; ma non se ne può trovare una per ottenere una facilitazione a chi le voglia seguire. Il serait donc à souhaiter (dice un altro critico) que la durée fictive de l’action pût se borner au temps du spectacle; mais c’est étre ennemi des arts, et du plaisir

  1. Batteux, Principes de la littérature, Traité V, chap. 4.