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capitolo sesto 193

non si cerchi in istituzioni che, o non esistevano, o non erano compite, nè rassodate, ma nell’azione e nel carattere d’ognuno di que’ re: si vedrà allora che questa parola aveva in ogni caso un significato diverso. La corona era un cerchio di metallo, che valeva quanto il capo che n’era cinto.

Quando un uomo del carattere di Carlomagno è investito d’un’autorità primaria e limitata nello stesso tempo; ed è risoluto di far prevalere la sua volontà, tutti gli uomini dotati anch’essi d’attività e d’un forte volere, si trovano con lui in tre diversi generi di relazioni, che ne formano come tre classi. La prima è d’alcuni i quali, tenaci de’ loro o privilegi o diritti, avendo presenti le consuetudini e i fatti anteriori, non potendo persuadersi che le cose devano cambiarsi perchè è cambiata una persona, s’oppongono, apertamente o per mezzo di trame, a un potere che trovano ingiusto: e questi sono perduti. La seconda classe è di quelli che, pensando come i primi, non hanno la stessa risoluzione, e si contentano di rammaricarsi e di criticare: e questi non influiscono, almeno in grande, sugli avvenimenti. La terza, e la più numerosa, è di quelli che, volendo operare, e vedendo che la maniera più sicura, più facile e meno pericolosa d’operare è di farsi mezzi di quell’uomo; chi per inclinazione, chi per rassegnazione, diventano suoi mezzi. Quest’uomo allora, tenendo in mano la maggior somma delle forze, le rivolge a uno scopo, dirige tutti gli avvenimenti, e ne fa nascere, com’è da aspettarsi, d’eternamente memorabili. E così fu. Gli uomini della prima classe, riguardo a Carlomagno, si vedono in Hunoldo duca d’Aquitania, in Rotgaudo duca del Friuli, in Tassilone duca de’ Bavari, e in altri. Della seconda, la storia non parla; ma chi dubiterà che non ce ne siano stati? La terza si vede tutta raccolta in que’ campi dove Carlo faceva proposizioni ch’erano decreti; in quegli eserciti che portava da un punto all’altro d’Europa, e ne’ quali non si può distinguere quasi altro che un esercito e un uomo. L’aristocrazia era nel regno di Carlo non già abolita, ma inerte, ma impotente, ma sospesa, per dir così, in tutto ciò che potesse essere comando indipendente, o resistenza: e tutta la forza che le rimaneva, veniva ad essere un mezzo potente nelle mani del re. Gli uomini di questo carattere, quando si trovano al primo posto, non s’affaticano a distruggere tutte l’istituzioni che, in diritto, potrebbero essere un limite al loro potere, perchè sentono troppo la grandezza e la complicazione del loro disegno, per renderlo ancor più difficile e più vasto senza necessità; creano alle volte essi medesimi di queste istituzioni: il volgo può credere un momento che si siano messo un freno; e in vece hanno afferrato uno strumento. Sotto un tal uomo l’esercito Franco non aveva da pensare ad altro che ad eseguire degli ordini: e questa certezza che scemava forse il sentimento della dignità nelle persone, accresceva però la fiducia che nasce dal trovarsi in una grande unanimità. Presso i Longobardi in vece, nessuno si sentiva come obbligato da un impulso a piegare in tutto la sua volontà; ma rimanendo in gran parte libero, correva rischio di rimaner solo, o con pochi compagni. Da queste differenze, la differente condotta dei due eserciti. Se questi avessero cangiati i capi, la condotta di tutt’e due sarebbe stata tutt’altra. I Longobardi, governati da Carlo, non si sarebbero divisi in partiti: quelli che prima del suo regno avessero appartenuto al partito del suo nemico, avrebbero cercato di farlo dimenticare a forza di devozione, e d’attiva servilità: e se i Franchi avessero avuto un re non dotato dell’incontrastabile superiorità morale di Carlo, ciò che era in essi impeto d’ubbidienza, sarebbe divenuto facilmente più o meno aperta opposizione.

Eginardo, nella vita di Carlo, la quale, benchè tanto succinta, è pure