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192 | discorso storico |
la moltiplicità e la divergenza di queste operazioni può bensì esser un ritardo a ottenerlo, ma di rado lo rende impossibile; gli errori rimangono impuniti, perchè non c’è un nemico che possa prevalersene. Nascevano discordie tra i duchi? Era un momento di respiro per gl’Italiani da conquistarsi; ma quando le discordie finivano, e in qualunque maniera fossero finite, i pacificati, o i vincitori, o anche i vinti, potevano andar di nuovo addosso agl’indigeni: il torrente riprendeva il suo corso; trovava il letto libero dovunque arrivava; nessun argine era stato alzato, nel tempo in cui le sue acque avevan presa un’altra strada.
Ma tra barbari e barbari non passava questa disuguaglianza: c’erano altre proporzioni, e per decidere della vittoria erano necessari altri mezzi particolari di superiorità. Lì ognuno vede quanto l’unità materiale delle forze, l’unità del comando, la direzione di tutte l’operazioni a un solo scopo dovessero servire a renderlo facile e sicuro; lì la libertà signorile, con le sue pretensioni, con le sue discordie, con le sue condizioni, con la sua tarda, disuguale, dimezzata, litigata ubbidienza, doveva far sì che molte cose necessarie alla riuscita non si tentassero, che altre andassero a male; doveva in somma produrre una debolezza generale in tutte l’operazioni. Questa disuguaglianza si trova al massimo segno tra l’esercito franco e il longobardo, tra l’una e l’altra nazione, al tempo della guerra tra Carlo e Desiderio.
Ma questa disuguaglianza (ed eccoci alla seconda questione) bisogna, se non m’inganno, cercarla, non tanto nell’istituzioni de’ due popoli quanto nel carattere de’ due capi, o per dir meglio, nel carattere singolare di Carlomagno.
L’istituzioni de’ Franchi e quelle de’ Longobardi, come quelle di quasi tutti i popoli settentrionali, avevano tra loro pochissime differenze, e queste non essenziali. Una nazione conquistatrice, posseditrice, e militare; un re elettivo, capo dell’esercito, legislatore col popolo; duchi o conti, con poteri militari e giudiziari; i punti cardinali in somma dello stato politico erano i medesimi: perchè lo stato antico e le circostanze successive di que’ popoli, l’intenzioni delle loro leggi erano simili nelle cose primarie. Ma l’istituzioni politiche di tutti i tempi producono effetti diversi secondo il carattere degli uomini che sono regolati da esse, e le regolano a vicenda. Non c’è mai stata una misura di poteri tanto precisa, tanto applicabile a tutti i casi, a tutte le relazioni, che in tutte le mani sia sempre stata la stessa. C’è nelle leggi di qualunque sorte una certa, per dir così, arrendevolezza, la quale seconda le volontà più o meno forti di coloro che operano con l’autorità di quelle. Ora, questa facoltà d’applicare in varie maniere le leggi si trovava in sommo grado presso i barbari del medio evo, tra i quali le leggi che attribuiscono i poteri, quelle che a’ giorni nostri si chiamerebbero organiche, costituzionali, non erano nè scritte, nè ridotte, che si sappia, in formole tradizionali, ma erano consuetudini pratiche, prodotte da circostanze e da necessità successive e complicate. Queste leggi o consuetudini o memorie di fatti antecedenti non prevedevano tutte le possibili emergenze, tutti i contrasti di potere, tutti i dubbi; c’erano dunque di molti casi, ne’ quali il da farsi non si sarebbe trovato in esse, quand’anche tutti di buona fede avessero voluto seguirle. Ora, dov’era, in questi casi, il principio delle risoluzioni? Nelle volontà. E quale prevaleva? La più forte, quella che nel manifestarsi annunziava una determinazione, un’irremovibilità, una profondità di pensiero e una passione tale, che l’altre s’accorgevano di non avere altrettanto da opporle. Carlomagno aveva una di queste volontà, e per conseguenza le facoltà che la fanno esser tale, e per tale riconoscere. Chi vuol sapere appuntino cosa significasse la parola re ne’ secoli barbari,