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capitolo quinto | 189 |
ed estesa: nessun interesse, nessuna considerazione, nessun ostacolo dovrebbe ritenerli dall’essere interamente giusti in parole. Eppure, anche a questo solo ma splendido privilegio può far rinunziare lo spirito di partito: uno storico si contenta di discendere dal suo nobile posto, si butta nel mezzo delle passioni e de’ secondi fini di coloro che dovrebbe giudicare, e inventa qualche volta sofismi più raffinati e più strani di quelli che le passioni attive e minacciate hanno saputo immaginare.
Non si deve passar sotto silenzio, che la predilezione di molti per la causa de’ Longobardi è fondata su un pensiero di utilità universale, e su quell’amore di patria che si diffonde nel passato e nell’avvenire, e fa trovare negli avvenimenti passati, negli avvenimenti futuri e lontani, de’ quali non sappiamo altro di certo se non che noi non ne saremo testimoni, un interesse, non della stessa vivacità ma dello stesso genere di quello che si trova negli avvenimenti contemporanei. Dal Machiavelli in poi, molti storici (e certo non quelli che hanno men fama di pensatori) hanno detto, o fatto intendere che la conquista del territorio romano per parte de’ Longobardi sarebbe stata vantaggiosa a tutti gli abitatori d’Italia, rendendola forte e rispettata, per l’unione e per l’estensione del territorio. Ma questo è sempre fondato sulla supposizione che i Longobardi vivessero in una comune concittadinanza con gli Italiani che abitavano il territorio già posseduto da loro; che offrissero una comune concittadinanza a quelli, del di cui territorio si sarebbero impadroniti; che volessero estendere un governo, non un possesso: ed è una supposizione, sulla quale, come spero d’aver dimostrato, non c’è da fondar nulla.
È una curiosa maniera d’osservare la storia, quella d’arzigogolare gli effetti possibili d’una cosa che non è avvenuta, in vece d’esaminare gli effetti reali d’avvenimenti reali; di giudicare una serie di fatti in vista della posterità, e non della generazione che ci s’è trovata dentro o sotto: come se alcuno potesse preveder con qualche certezza lo stato che a lungo andare sarebbe resultato da fatti diversi; come se, quand’anche si potesse, fosse poi cosa ragionevole e umana il considerare una generazione puramente come un mezzo di quelle che vengon dopo. Ci dicano un poco quegli scrittori, quale sarebbe stata la condizione del popolo romano, se i disegni d’Astolfo fossero riusciti; ci diano, non dirò un minuto ragguaglio, ma un’idea della sorte che sarebbe toccata ai conquistati; ci facciano vedere qual parte ci avrebbe avuta la giustizia, la sicurezza, la dignità, tutti in somma que’ beni sociali che meritano un tal nome, non tanto per i vantaggi che portano nel tempo, quanto perchè rendono a ognuno men difilcile l’esser bono. Con queste notizie si potrà discutere se la causa che essi hanno preferita, meriti veramente la preferenza. Per noi intanto, i mezzi che i Longobardi mettevano in opera per farsi padroni, cioè il ferro e il fuoco; le nozioni generali sull’indole degli stabilimenti barbarici del medio evo, l’orrore manifesto de’ Romani per la sorte che li minacciava, l’ignoranza stessa in cui siamo dello stato degl’Italiani già soggetti ai Longobardi, sono argomenti più che bastanti per credere che i papi facend andare a voto la conquista, allontanarono da que’ popoli una gran calamità. E non esitiamo a dire ingiusto e inconsiderato quel biasimo dato tante volte alla memoria d’Adriano, d’avere egli in questo caso chiamati gli stranieri in Italia: parole che, dicendo una cosa vera, ne vogliono far supporre una falsa, cioè gli abbia chiamati contro i suoi concittadini; quando gli aveva chiamati in loro aiuto. Cos’avrebbero detto, a sentire un tal rimprovero, que’ Romani, i quali avvezzi a tremare, a chiudersi nelle chiese, a urlar di spavento all’avvicinarsi d’un re longobardo, vedevano allora un re de’ Franchi, quel Carlo vincitore, il di cui nome, pronunziato da così poco tempo,