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giustizia, di proprietà, di diritto delle genti, non sarebbero state nè ascoltate nè intese dai barbari, i quali avevano un loro sistema di diritto fondato sulla conquista, questo solo personaggio poteva pronunziar parole che diventavano un soggetto d’attenzione e di discussione: era un Romano che poteva minacciare e promettere, concedere e negare. A quest’uomo dunque si dovevano volgere tutti i voti, e tutti gli sguardi de’ suoi concittadini; e così infatti avveniva. I papi, nelle tribolazioni di quell’infelice popolo, chiedevano o forze ai Greci, o pietà ai Longobardi, o aiuti ai Franchi, secondo che la condizione de’ tempi permetteva di sperar più in un rimedio che nell’altro. L’ultimo fu il più efficace; ma per vedere, se l’effetto principale dell’intervento de’ Franchi sia stato di soddisfare un’ambizione privata de’ papi o di salvare una popolazione, basta guardare alla sfuggita in quali occasioni i Franchi siano stati chiamati dai papi. Gregorio III chiede aiuto a Carlo Martello, quando gli eserciti de’ Longobardi mettono a sacco il territorio romano1; Stefano II ricorre a Pipino, quando Astolfo, poco dopo aver conclusa la pace per quarant’anni, assale Roma, pretende da’ cittadini che si riconoscano tributari, finalmente minaccia i Romani di metterli tutti a fil di spada, se non si sottopongono al dominio Longobardico 2.

Dopo le due fughe e i due giuramenti d’Astolfo, e la donazione di Pipino, i richiami de’ papi ai Franchi s’aggirano intorno agl’indugi de’ Longobardi nello sgomberare le terre donate da Pipino, e insieme intorno alle nuove invasioni di essi sul territorio romano. Nel primo lamento molti non vedon altro che un dolore ambizioso de’ papi, e fanno carico a questi d’aver mosso cielo e terra per una loro causa privata: a noi però, come abbiam detto, è impossibile di riguardare come causa privata una contesa nella quale si trattava se una popolazione sarebbe stata conservata come conquista dai barbari, o libera da quelli. I mali orrendi delle spedizioni continue non erano certo un dolore privato de’ papi; e Paolo I non pregava per sè solo, quando implorava l’aiuto di Pipino contro i Longobardi, che passando per le città della Pentapoli avevan messo tutto a ferro e a fuoco3; nè Adriano, quando i Longobardi commettevano saccheggi, incendi, e carnificine nei territori di Sinigaglia, d’Urbino, e d’altre città romane, quando assalendo all’improvviso gli abitanti di Blera, che mietevano tranquillamente, uccisero tutti i primati, portarono via molta preda d’uomini e d’armenti, e misero il resto a ferro e a fuoco4.

  1. Epist. Greg. ad Car. Mart. in Cod. Carol. 1.
  2. Anast.; Rer. It., T. III, pag. 166: e le lettere di Stefano nel Codice Carolino.
  3. Pauli ad Pip. Epist. in Cod. Car. 15.
  4. Anastas., pag. 182. — Più d’uno storico e più d’un pubblicista dissero che Pipino, donando alla Chiesa romana un paese che faceva parte dell’Impero, aveva donato l’altrui; altri sostennero che quel paese era diventato suo per ragione di guerra: ed è ciò che, nelle Notizie Storiche, abbiamo chiamato una questione mal posta. Una contradizione aperta e cortese (due eccellenti qualità, senonchè in questo caso c’è un grand’eccesso della seconda) ci avverte che avremmo dovuto addurre la ragione di quest’opinione, e, prima di tutto, enunciarla più chiaramente. «La questione» ci viene opposto, «se pure si può chiamarla tale, non fu tronca nè nel fatto nè nel diritto. Perchè, in quanto al diritto, Astolfo, dal quale Pippino, o vogliamo dire Stefano, riceveva le città, non poteva trasferire in altri più di quello ch’egli medesimo aveva in sè; e se Stefano e Pipino, lo tenevano e lo chiamavano pubblicamente usurpatore, il diritto dell’usurpatore, sustanzialmente vizioso non poteva divenire buono solamente perchè da quello si trasferiva in altri. E in quanto al fatto, Pipino non conquistò mai materialmente, nè sul Longobardo nè sul Greco, quelle città, una parte delle quali il papa stesso non ebbe per un gran pezzo di poi; e quelle che ebbe allora, e le altre che ebbe di poi, tutte le ricevette dalle mani del Longobardo. (Ranieri, Storia d’Italia dal V al IX secolo, Lib. 2.°). La ragione che avremmo dovuta allegar