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appendice al capitolo terzo 157

altro carattere che abbiamo già accennato, cioè l’esser quelle leggi non di rado ammonizioni morali e religiose, piuttosto che prescrizioni strettamente legislative; per cui venivano a toccare que’ punti in cui la comune origine, la comune natura e la comune sudditanza a una legge divina, sono ciò che predomina, e «non c’è più, nè Giudeo, nè Greco, nè servo, nè libero 1.» E, certo (ci si permetta un’osservazione non necessaria, ma quasi inevitabile), non è quella la forma propria e migliore delle leggi: il loro oggetto dev’esser preciso e circoscritto più che si può, affinchè l’osservanza possa essere adeguata, e la repressione non sia arbitraria; il legislatore non deve farsi predicatore: chi non lo sa? Ma sarebbe leggerezza e pedanteria insieme il non guardar la cosa che da questo aspetto. In mezzo a questa ferrea distinzione di razze non solo era bello, ma non poteva essere senza qualche effetto il richiamo a qualcosa di comune, d’universale e insieme di sacro; e l’esser qualche volta quelle diverse razze riunite, se non altro, in un vocabolo, era come un annunzio e una preparazione lontana della fusione reale di esse. Dico lontana; perchè la cosa doveva farsi per gradi, e ci vollero altre cause, alcune di natura diversa o anche opposta, e lente, indirette e, come accade spesso, mosse da voleri che nè si proponevano, nè prevedevano un tale effetto. E tra queste cause fu certamente una principalissima l’aumento progressivo del potere degli ottimati o signori, divenuti ereditari, e de’ prelati, alcuni de’ quali, erano divenuti più signori che vescovi o abati. La differenza tra signore e non signore fece come scomparire l’antica differenza tra Barbaro e Romano; e in vece di più razze, non rimase che una classe e una moltitudine; le diverse frazioni della quale poterono poi naturalmente e convenientemente chiamarsi Comuni. Ma con diverso successo, e nel momento, e per l’avvenire. Chè, dove c’era un potere supremo, più o meno attivo, più o meno rispettato, ma presente, i Comuni, o vinti e disfatti o ammessi a incerte e fragili condizioni, lasciarono viva, anzi più forte l’unità; vincitori, dove non c’era quel potere presente, accrebbero smisuratamente, la divisione che già esisteva, creando tanti novi poteri, i quali diventavano supremi di fatto ogni volta che il supremo in titolo era senza forza reale. Povere creazioni, e così instabili la più parte; ma, nelle mutazioni delle quali, rimaneva stabile lo sminuzzamento.

Per tornare al punto o, ciò che è meglio, per concludere: del popolo inteso nel significato il più generale e indeterminato, e del solo genere di consenso che può convenire a un tal popolo, ci pare che abbia voluto parlare Lotario. Interpretazione verisimile per sè, e che rimane la sola verisimile se, come abbiamo cercato di dimostrare, non si può intendere che abbia voluto parlare, nè d’un popolo politico, nè d’un consenso formale.

Ma che dire di que’ legislatori che adopravano un vocabolo medesimo, e un vocabolo di tanta importanza, a significar cose tanto diverse, ora pochi, ora molti, ora tutti? Ch’erano barbari. Non s’era ancora conosciuto quanto importi il mantener distinte le parole per non confonder le cose. Tutt’al più si può dire per loro scusa, che cercavano qualche volta di prevenir gli equivochi, con l’aggiunta d’altre parole. Ma ci vuol altro. Vedete un poco i moderni: hanno adoprata anch‘essi quella parola, e non poco, e non per fini di poca importanza; ma la prima cosa è stata d’andar bene intesi sul suo significato preciso. E perciò non c’era pericolo

  1. Non est Judaeus, neque Graecus: non est servus, neque liber: non est masculus, neque femina. Omnes enim vos unum estis in Christo Jesu. S. Paul. ad Galat. III, 28.