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appendice al capitolo terzo 147

coloni agricoli: sarebbe troppo il contrario di ciò che vuole, e qui e per tutto. Ma nello stesso tempo non pare che si possa intender altro; giacchè, se l’autore credeva che ci fossero proprietari italiani, come mai avrebbe potuto lasciarli fuori qui? come dimenticare che il non pagar tasse fiscali, dato che, con quella condizione, fosse un sollievo, lo era principalmente, se non esclusivamente, per loro? Di più, le prestazioni fisse dominicali non si possono riferire ad altro che al celebre e disputato passo di Paolo Diacono: per hostes divisi, ut tertiam partem frugum suarum Langobardis persolverent 1; giacchè queste sole si potevano considerare come sostituite alle tasse fiscali. Ora, il dire ch’erano a carico de’ coloni agricoli, è un dire di nuovo che non c’erano più proprietari italiani. Anche il dare a quel tributo il nome di prestazioni dominicali, è quanto dire (se le parole hanno un valore) che i Longobardi, a cui si pagavano, erano diventati i padroni de’ fondi. O quelle parole messe in bocca al clero hanno un senso ben profondo e superiore all’intelligenza comune, o bisogna dire che non ne abbiano nessuno.

FINE DELLA NOTA

Da ciò lice conchiudere che i Comuni italiani godevano la franchigia di avere giudici proprj eletti o presentati da loro, e confermati o eletti dai Duchi o dai Re lombardi, e questi furono dopo gli Scabini, de’ quali parla Lotario, da eleggersi totius populi consensu, corrispondenti agli Sculdascj longobardi.

OSSERVAZIONI

Nel ribattere apertamente, come abbiam fatto, asserzioni e ragionamenti d’uno scrittore di gran fama, c’è nato più volte il dubbio di poter essere da qualche lettore tacciati d’irriverenza. Se ciò fosse accaduto, non avremmo a far altro per la nostra giustificazione, che allegare un principio incontrastato e incontrastabile, cioè il diritto comune a tutti gli uomini, d’esaminare l’opinioni d’altri uomini, senza distinzione di celebri e d’oscuri, di grandi e di piccoli. Fu anzi, ed è forse ancora, opinione di molti, che il riconoscimento d’un tal diritto sia stata una conquista e una gloria di tempi vicini al nostro: cosa però, che ci par dura da credere, perchè sarebbe quanto dire che il senso comune non sia perpetuo e continuo nell’umanità, ma abbia potuto morire in un’epoca, e resuscitare in un’altra: due cose, delle quali non sapremmo quale sia più inconcepibile. S’è bensì creduto in diversi tempi, che l’autorità, ora d’uno, ora d’un altro scrittore, costituisce una probabilità eminente; non s’è mai creduto (meno il caso non impossibile, ma che non deve contare, di qualche pazzo, ma pazzo a rigor di termini) che fosse un criterio infallibile di verità. Quel celebre e antico: amicus Plato, amicus Aristoteles, sed magis amica veritas, non fu che una formola particolare e nova d’un sentimento universale e perenne: formola più o meno ripetuta d’allora in poi, ma non mai rinnegata. Esagerando, come si fa qualche volta, gli errori de’ tempi passati, ci priviamo del vantaggio di cavarne degl’insegnamenti per noi: ne facciamo de’ deliri addirittura; e allora non si può cavarne altro che la sterile compiacenza di trovarci savii se guardando più attentamente, vedessimo ch’erano miserie, potremmo esserne condotti a osservare che

  1. De gestis Langob. Lib. II, cap. 32.