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appendice al capitolo terzo 143

vede che dall’essere stati, in una circostanza, creati de’ giudici italiani, per decidere sulla proprietà di certe terre, e tra uomini che non godevano di privilegio alcuno, si potrebbe inferire molto ragionevolmente, che non ci dovevano dunque essere i giudici italiani bell’e preparati, che voleva l’interpretazione?

Si dirà forse che, se il fatto non prova ciò che voleva questa, potrà almeno provare un’altra cosa, e una cosa relativa alla questione?

Non lo dirà di certo chiunque badi che la questione è generale, riguarda un complesso di fatti; e che questo è un fatto solo. La questione domanda: c’erano giudici italiani per gl’Italiani?; e questo fatto (sempre supponendolo quale è rappresentato) risponderebbe: ce ne fu in un caso. È vero che la Nota lo chiama il fatto, che è appunto la maniera usata anche per significare un complesso di fatti; ma in questo caso è un abuso manifesto di parole, è un concludere dal particolare al generale, anzi è un cambiare addirittura, e per mezzo d’un articolo, il particolare in generale. So bene che in un fatto particolare si possono trovare argomenti di generalità; ma c’è qui forse qualcosa di simile? Forse che nel placito, o in qualcheduno de’ molti altri atti relativi alla causa medesima, non citati dall’autore, è detto o accennato che quella commissione fosse istituita in virtù e per applicazione d’una regola generale praticata in tutte le cause tra Italiani? Non ce n’è il più piccolo cenno, come il lettore può assicurarsene osservando que’ documenti. Anzi come mai in que’ documenti ci potrebb’essere una cosa simile?, o chi mai, se ci fosse, vorrebbe accettarli per autentici? Chi, dico, vorrebbe credere che, quando degl’Italiani avevano una lite tra di loro, i re longobardi nominavano apposta una commissione d’Italiani per deciderla? Sicchè il fatto allegato, non essendo altro che un fatto particolare, e non si potendo, senza cader nell’assurdo, riguardarlo come una mostra, dirò così, d’un fatto generale, è indifferente alla questione; e quindi non ci sarebbe bisogno d’esaminarlo. Non intendiamo però di dispensarcene.

A quattro vescovi e ad un Notajo per nome Gumeriano, tutti italiani. Tutti italiani? Con quale argomento, e su quale indizio? La Nota non ne adduce veruno; e, in verità, è una cosa singolare questo dar come prova una nova affermazione. Se l’autore ha creduto che la proposizione = C’erano, sotto i Longobardi, de’ giudici italiani = aveva bisogno d’esser dimostrata, come ha potuto immaginarsi che quest’altra = I giudici istituiti in una circostanza dal re Liutprando erano italiani = fosse evidente per sè? E se aveva delle ragioni positive per crederla vera, come fa il lettore a indovinarle? Forse il placito allegato? Non c’è, nè in questo, nè in alcun altro de’ documenti accennati sopra, una sillaba che si possa riferire alla nazionalità di quegli uomini. Forse i loro nomi? Sarebbe un indizio incertissimo; giacchè poteva bensì essere un caso raro, ma non era un caso impossibile, nè un caso inaudito, che ad uomini d’una nazione si dessero nomi dell’altra. D’Italiani non so; ma di Longobardi ch’ebbero nomi, o italiani, o almeno non germanici, e usati dagl’Italiani, non mancano esempi, sicuri quanto noti 1. E c’era infatti

  1. Come Paolo Diacono, e i due fratelli nominati da lui, Pietro, duca del Friuli, Orso, duca di Ceneda: unus e Langobardis nomine Munichis, qui pater post Petri Forojulianorum, et Ursi Cenetensis ducum extitit.... (VI, 24). E non è improbabile che al re Desiderio sia stato dato questo nome, in onore di san Desiderio di Benevento, martire della persecuzione di Diocleziano; e a quell’altro Desiderio, duca franco, di cui Gregorio Turonese racconta le vicende (Hist. V, 13 et al.), in onore di qualcheduno de’ vescovi santi che avevano già reso celebre e venerato quel nome nelle Gallie. Lo storico citato ora chiama Paolo il re longobardo che succedette ad Autari (X, 3). È errore de’ copisti? o sarebbe mai un soprannome onorevole dato da qualcheduno ad Agilulfo, dopo la sua conversione?