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138 discorso storico

la città e il giudice, anzi il suo giudice: vediamo cosa n’uscirebbe, a interpretar quel suo nel senso della Nota. Una di queste leggi è di Liutprando: ne diamo qui la parte che fa al proposito, tradotta, diremo di nuovo, come si può. «Se qualcheduno, in qualsisia città, senza il comando del re, ecciterà una sedizione contro il suo giudice, o farà qualche guasto, o cercherà di scacciare il giudice suddetto; o se altri uomini d’un’altra città faranno lo stesso contro un’altra città o contro un altro giudice, o cercheranno di scacciarlo; chi ne sarà il capo, sia punito di morte, e ogni suo avere ricada al Palazzo» cioè alla cassa del re: «i complici paghino la loro composizione al Palazzo medesimo 1.» L’altra legge è la sesta del nostro Rachi, quella di cui, come s’è accennato or ora, dovremo parlare di nuovo: qui basterà citarne il principio. «Siamo informati, che nelle diverse città, degli uomini malvagi fanno ammutinamenti contro il loro giudice 2.» Se qui, dico, vogliamo intendere il judicem suum nel senso della Nota, ne verrà che la legge non proibiva d’ammutinarsi, se non contro il giudice della propria nazione; ne verrà che, se un Italiano fosse stato complice o capo d’una sommossa contro un giudice longobardo, e viceversa, se un Longobardo avesse fatto lo stesso contro il supposto giudice italiano, non era nulla. E s’osservi che la legge di Liutprando prevede il caso d’ammutinamenti fatti contro un altro giudice; ma a chi riferisce queste parole? Agli uomini d’un’altra città. Solamente l’ammutinarsi contro un giudice della propria città, ma non della propria nazione, sarebbe stato un fatto impunito: quando non si trovasse più ragionevole il dire che la legge non n’ha parlato, perchè lo riguardava come un fatto impossibile.

In queste due leggi poi, anche chi non abbia alcuna idea del sistema giudiziario de’ Longobardi, vede subito che, in quel sistema, tra città e giudice c’era una relazione speciale; e quindi, che l’accompagnare que’ due vocaboli, come era qualche volta necessario, così poteva accader facilmente anche quando non ci fosse necessità; appunto come s’è detto di diocesi e vescovo, e si potrebbe dire di cent’altre cose. Ma per chi abbia una qualche idea di quel sistema, e del suo particolare vocabolario, questa relazione è tanto ovvia, che, in verità, non si sa intendere come mai all’autore della Nota non sia venuta in mente addirittura, e in maniera da non lasciar luogo ad altre congetture. Essendo condotti a dirne qualcosa di più, dobbiamo per conseguenza chiedero il permesso di rammentar cose notissimo.

Nelle leggi longobardiche anteriori alla conquista di Carlomagno, la parola Judex ha spessissimo (non dico sempre, perchè non sarebbe cosa da affermarsi incidentemente e senza discussione) un significato speciale: indica, non un giudice di qualunque grado, ma, come per antonomasia, il giudice supremo d’un distretto, giudice che aveva sotto di sè altri giudici inferiori, e sopra di sè il re solo. Tra le leggi da cui questo risulta, n’accenneremo una sola, ma espressissima. «Se uno porterà una causa davanti al suo sculdascio,» giudice inferiore, «e questo tarderà più di

  1. Si quis sine voluntate Regis, in qualicumque civitate contra Judicem suum seditionem levaverit, aut aliquod malum fecerit, vel eum sine jussione expellere quaesierit; aut alteri homines de altera civitate contra aliam civitatem, aut alium Judicem, ut supra, sine iussione fecerint, aut eum expellere quaesierint, tunc is qui in capite fuerit, animae suae incurrat periculum, et omnes res ejus ad Palatium deveniant. Reliqui vero homines qui cum illo in malo consentientes fuerint, unusquisque componat in Palatio guidrigild suum.... Liutp. V, 6.
  2. Cognovimus quod per singulas civitates mali homines tanas (? altri codici, citati dal Muratori, hanno: ronas, zawas, zanas), idest adunationes contra Judicem suum agentes faciunt. Rach. I. 6; Rer. It. t. I, P. II, pag. 87.