l’ultima, secondo ogni probabilità) sono dirette, non a Milano, ma a quella parte del clero e del popolo milanese che, all’invasione d’Alboino, s’era rifugiata a Genova, dove non c’eran Longobardi 1
Dimanierachè, se anche quel titolo ci fosse davvero, non si potrebbe altro che, o dirlo apocrifo addirittura, o spiegarlo col supporre che i milanesi di-
- ↑ . È noto che, all’arrivo de’ Longobardi, sant’Onorato, arcivescovo di Milano, si rifugiò a Genova, dove morì, e dove risiedettero i suoi successori, Lorenzo II, Costanzo, Deusdedit, Asterio e, probabilmente per qualche tempo, Forte, del quale non rimane altra memoria, che il nome (Catalogus Archiep. Mediol.; Rer. It. T. I. par. 11, pag. 228). La cagione d’un tal silenzio è che, nel tempo in cui sedeva quest’arcivescovo, Genova, con un gran tratto del littorale, fu invasa da Rotari, il quale, secondo la relazione di Fredegario, scrittore probabilmente burgundione e contemporaneo, mise que’ paesi a ferro e a fuoco, spogliò e ridusse in servitù gli abitanti, e, distrutte le città, ordinò che si chiamassero borghi. «Segno che doveva esser ben forte in collera contra di essi (abitanti),» dice il Muratori (Annali, 641). Noi crediamo che possa esser segno di qualcos’altro, giacchè, nè in questa, nè in più altre spedizioni eseguite nella stessa maniera da’ Longobardi, si vede alcun motivo nè pretesto di collera contro gli abitanti. Ecco il testo di Fredegario: Civitates litoris maris de Imperio auferens, vastat, rumpit incendio concremans, populum diripit, spoliat et captivitate condemnat; murosque earum usque ad fundamentum destruens, vivos has civitates nominare praecepit. Fred. Chron. LXXI; Rer. Fr. T. 2, pag. 440. (Intorno alla patria e all’età di questo scrittore, si veda la dotta prefazione del P. Ruinart alla storia di Gregorio Turonese, nello stesso volume, pag. 123‑128.) La sede fu poi ristabilita in Milano dal successore immediato di Forte, san Giovanni il Bono, circa settantasett’anni dopo la fuga di sant’Onorato.
Ora, la prima delle lettere di cui si tratta, scritta dopo la morte di Lorenzo suddetto, è relativa alla nomina d’un successore. Con essa risponde Gregorio al clero milanese stabilito in Genova, che gli aveva scritto d’aver eletto Costanzo: ed ecco perchè nel titolo non è nominato il popolo. Latore di questa lettera fu Giovanni suddiacono; al quale, in un’altra lettera (III, 30), Gregorio ordina che vada a Genova, e verifichi la cosa, perchè la lettera del clero non era sottoscritta. «E perchè» aggiunge, «molti milanesi (sottintendi: laici) dimorano là, costretti dalla ferocia de’ barbari,» ecco il popolo nominato nel titolo dell’altre due lettere; «raccogli anche i loro voti; e se concorrono in Costanzo, fallo consacrare dai vescovi a cui tocca, con l’assenso della nostra autorità. «Hujus praecepti auctoritate suffultum, Genuam te proficisci necesse est.
Et quia multi illic Mediolanesium coacti barbara feritate consistunt, eorum te voluntates oportet, eis convocatis, in commune perscrutari. Et si nulla eos diversitas ab electionis unitate disterminat, siquidem in proedicto filio nostro Constantio omnium, voluntates atque consensum perdurare cognoscis; tunc eum a propriis Episcopis, sicut antiquitatis mos exigit, cum nostrae auctoritatis assensu, solatiante Domino, facias consecrari.
La seconda lettera è relativa all’elezione già fatta del diacono Deusdedit al posto di Costanzo defunto; e ci si troverebbero, se ce ne fosse bisogno, argomenti più che bastanti per credere che non fu indirizzata a Milano. E in risposta a una, con la quale gli elettori avevano informato il papa, che Agilulfo, re de’ Longobardi, e, come si vede, ancora ariano, aveva loro intimato che nominassero una persona di suo aggradimento; ed ecco cosa dice il papa su questo proposito: «Non vi fate caso di ciò che v’ha scritto Agilulfo, perchè noi non saremmo mai per riconoscere uno che fosse eletto da non cattolici, e principalmente da Longobardi... Non c’è qui nulla che possa stornarvi dal vostro proposito, nè farvi forza veruna; perchè la vostra Chiesa non ha entrate ne’ paesi posseduti dal nemico; ma sono, tutte, per la protezione di Dio, nella Sicilia, e in altre parti doll’Impero.» Illud autem quod vobis ab Agilulpho indicastis scriptum, dilectionem vestram non movent. Nam nos in hominern qui non a catholicis et maxime a Langobardis eligitur, nulla praebemus ratione consensum.... Nec enim est quod vos ex hac causa deterreat, vel aliquam vobis necessitatem incutiat, quia unde possunt alimenta sancto Ambrosio servientibus Clericis ministrari, nihil in hostium locis, sed in Sicilia, et in aliis Reipublicae partibus, Deo protegente consistit. L’avere il re intimato i suoi voleri per lettera, è già un indizio che gl’intimava a persone fuori de’ suoi stati; il non parlare il papa altro che d’entrate, è un altro indizio che le persone erano fuori di pericolo; e chi vorrà poi credere che avesse chiamati nemici i Longobardi, se avesse scritto a gente che fosse stata nelle loro unghie? È bensì usanza de’ santi di non dir bugie, ma non di dire qualunque verità in qualunque circostanza. Ma l’induzioni sono superflue quando ci sono le prove. Anche in questa lettera è nominato un latore: Pantaleonem notarium nostrum transmisimus; e ce n’è anche qui un’altra al latore medesimo, nella quale il papa gli ordina che vada a Genova, e faccia ordinare Deusdedit, se l’elezione è stata unanime; e se non c’è alcun impedimento canonico. Experientia tua praesenti auctoritate suffulta, ad Genuensem urbem auxiliante Domino, proficiscens Deusdedit Diaconum tamen a cunctis electus est, et nihil est quod ei ex anteacta vita, per sacros possit canones obstare, Episcopum solemniter faciat ordinari (XI, 3).