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appendice al capitolo terzo | 129 |
popolo, che aveva pure una forma generale e coordinata di governo, cariche non solo militari e giudiziarie, ma anche amministrative, leggi su tutto questo materie, e che provvedono in piccoli oggetti? E del resto, perchè con avrebbe potuto accomodarla alla sua capacità o al suo genio, due cose che si prendono tanto facilmente l’una per l’altra? Il vizio logico poi di quell’argomento è d’inchiudere una petizione di principio. Dall’essere i Longobardi inetti all’amministrazione de’ municipi, vuol l’autore inferire che questi dovessero essere amministrati dagl’Italiani; con che suppone che fossero rimasti in piedi, che è appunto, la questione. Egli domanda chi mai, se non gl’Italiani, avrebbe potuto amministrare questi municipi, e lo domanda a quelli i quali dicono che non ce n’era più. Dicono forse una cosa assurda in principio? Un paese senza municipi è forse un’idea contradittoria, e per conseguenza un fatto senza esempio? Bisognava dimostrarlo, poichè s’aveva a far con gente che non se ne dava per intesa. O piuttosto (giacchè l’assunto sarebbe stato troppo strano, e la questione non poteva cadere che sul fatto particolare) bisognava combattere le ragioni per le quali essi negavano la conservazione de’ municipi italiani sotto i Longobardi; non supporla. Lo stesso si dica del non trovarsi nelle leggi menzione di gestioni longobardiche municipali. Cosa si può inferirne? Che questi non avevano gestioni municipali? Sia pure; e poi? Che dunque dovevano averlo gl’Italiani? Sì, di nuovo, se fosse dimostrato che qualcheduno le aveva, cioè se fosse dimostrato ciò che si tratta di dimostrare. E la fallacia del ragionamento, come abbiamo già accennato, è passata anche nelle denominazioni, voglio dire in quell’uso promiscuo de’ termini municipio e comune, come se fosse cosa intesa che sia tutt’uno; mentre la questione è appunto se i comuni siano stati una trasformazione de’ municipi, o un fatto novo.
L’altro argomento, cioè la niuna gelosia data a loro (Longobardi) da quest’oggetto, è fondato su un altro paralogismo, cioè sulla supposizione arbitraria, che i municipi non potessero cessare se non per una sola cagione, mancando la quale, dovessero necessariamente, per la forza stessa delle cose, rimanere in piedi. E di più questa cagione è enunciata con un termine generalissimo e relativo, e quindi inapplicabile quando non sia determinato l’oggetto a cui si deva riferire. Gelosia di che? Di dominio, questo s’intenda; ma per giudicar fin dove siano potuti arrivare gli effetti di questa gelosia, c’è bisogno di sapere di qual sorte di dominio si tratti. Si direbbe che tutte le conquiste procedano in una sola maniera, che tutte vogliano e facciano tanto e non più; e che quindi, avendo a cercare quali siano state le conseguenze d’una conquista qualunque, non importi punto di conoscere i fatti speciali di essa. Si direbbe che, in regola generalissima, per la forza stessa delle cose, ogni conquistatore, con una deliberazione ponderata, e per mezzo di leggi, levi ai vinti per l’appunto quanto è necessario per stabilire su di essi il suo dominio; e si direbbe di più, che ci sia una sola specie, una sola e universale misura di dominio. Ma, nè questa è la forza delle cose, nè la questione è di quelle che si possano sciogliere con argomenti cavati dalla forza generalissima delle cose, anche vera: si tratta, non delle cose, ma di certe date cose. La questione (cioè quella parte della questione, che riguarda le cagioni) è se i fatti speciali, i fatti legislativi o non legislativi dell’invasione longobardica, del regno di Clefo, della dominazione dei duchi, siano stati tali da poterne rimanere in piedi i municipi italiani, se la specie e la misura del dominio che i Longobardi hanno voluto e potuto stabilire sugl’Italiani, fossero compatibili con la continuazione di quelli. È vero che l’autore vuol confermare quell’argomento con un altro, a fortiori, cavato da fatti positivi; ma lo fa attribuendo a questi fatti un valore