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capitolo terzo | 127 |
ai vinti? Per tenerli in ubbidienza? Ma quelle leggi non erano state fatte con un tale scopo: non regolavano le relazioni da vincitore a vinto, da popolo a popolo; ma da privato a privato, da privato a magistrato. Ecco perchè, nè i Longobardi, nè gli altri barbari obbligarono i vinti a ricevere le loro leggi. Il perchè poi lasciassero ad essi l’antiche mi pare ugualmente manifesto. Assicurati i privilegi della conquista, le relazioni de’ conquistati tra di loro diventavano indifferenti ai padroni. Perchè si sarebbero presi l’incomodo di far delle leggi per della gente che, del resto, n’aveva già? E come farle? che norma prendere, in una materia, nella quale non erano guidati, nè dalle loro usanze, nè dai loro interessi? Ognuno sa che non era quella precisamente l’epoca delle legislazioni a priori, e che non s’era ancora trovata l’arte di far le leggi por i popoli (dico leggi davvero per popoli davvero) come le monture per i soldati, senza prender la misura.
Queste mi paiono le cagioni generali dell’essere stata lasciata ai vinti la legge romana: le diverse circostanze in cui si trovarono i barbari ne’ diversi paesi occupati, danno poi le cagioni particolari delle varie modificazioni d’una tal concessione.
APPENDICE AL CAPITOLO III.
Nel paragrafo III del capo III della parte seconda, intitolato: In qual senso, rispetto all’incivilimento, considerar si possa il longobardico dominio, il celebre autore scrive così: Volendo ridurre a brevi termini la situazione del popolo sotto i Longobardi, pare che i conquistatori abbian detto agl’Italiani: Noi siamo stanziati presso di voi, e voi sarete nostri tributarii e dipendenti, e noi, come statuto vostro sanzioniamo le leggi romane con cui a voi piace di vivere. Noi lasciamo che i vostri corpi municipali amministrino l’interna economia di cui non sarebbe a noi possibile di occuparci. I giudizii saranno tenuti sotto la presidenza di un giudice da noi deputato, ma col concorso e voto collegiale di vostri sapienti, sia ecclesiastici, sia laici, italiani quando i litiganti siano italiani, e di giudici misti quando la questione si agiti fra italiani e Longobardi.
Oso credere che, tra i lettori di quell’opera, nessuno il quale avesse qualche nozione dello stato dell’Italia sotto i Longobardi, sia arrivato a quelle parole: concorso e voto collegiale di sapienti italiani, e: giudici misti, senza provare un vivissimo desiderio di vedere su cosa siano fondate. Dico il desiderio, perchè il passo in cui si trovano, e che abbiamo trascritto, non è, come potrebbe parere a chi lo legge staccato, una conclusione, un sunto di fatti già esposti, ma una proposta affatto nova, e senza relazione con le cose antecedenti. Una nota avverte che le prove di questa particolarità e delle altre qui ricordate si vedranno nel seguente paragrafo. In esso poi, tra le circostanze che mantennero le radici dell’italica civiltà iniziata, e ne associarono l’azione col susseguente or-